Don Verzè

di Luigi Verzè e Giorgio Gandola

Proprio il giorno prima di essere ordinato sacerdote, mostra le sue perplessità a don Giovanni Calabria: «Padre, io non so più se il mio vero ideale sia il sacerdozio o la medicina». Il padre punta gli occhi verso l’alto e risponde: «Ora fa’ il prete. Quanto al medico, il Signore dirà». Il 27 marzo 1948 Luigi riceve l’ordine sacerdotale nella cappella privata del vescovo di Verona.
(...) Per la verità, a Luigi qualcosa che avrebbe avuto uno sviluppo futuro era già balenato. E lui, per conto proprio, qualcosa aveva già elaborato. «Maturava in me la convinzione che non sarebbe stato serio accogliere la chiamata evangelica dell’“andate e predicate” senza il suo epilogo naturale “e guarite gli infermi”». (...) Don Giovanni è deciso, gli fa abbandonare la tipografia e l’officina. « Va’» mi disse. «È il Signore che ti manda. A Milano nascerà una grande opera che farà parlare di sé l’intera Europa.» È l’ospedale. È quella pietra di Dio nata nella mente di don Giovanni nei lunghi colloqui con l’altro sponsor spirituale (e non solo) di don Luigi Verzé, il cardinale di Milano Ildefonso Schuster, conosciuto sotto le bombe nel 1944.
(...) finalmente don Luigi riesce a organizzare l’incontro. Avviene il 9 dicembre 1946. «Accompagno Schuster nello studio di don Calabria e assisto a una scena straordinaria e insieme commovente: il cardinale si leva il mantello di porpora e cade in ginocchio davanti a don Giovanni il quale, a sua volta, si prostra davanti a Schuster. Entrambi chiedono all’altro la benedizione. Poi accompagno Schuster a vedere i lavori del nuovo ospedale di Negrar, voluto da don Calabria. Lui ne rimane impressionato e approva l’apertura a Milano di una sede della Congregazione dei poveri servi». Don Luigi comincia a immaginare, al di là delle premonizioni, di essere la persona giusta per guidarla.
(...) Il posto è Cimiano, periferia est, tra via Palmanova e il parco Lambro. Tre stradine, sfollati in estrema povertà, carovane di immigrati meridionali, bambini e ragazzi abbandonati a se stessi. Il quartier generale è una vecchia casa utilizzata in tempo di guerra come scuola agraria. Il sindaco Greppi la concede in affitto. Bene, ma da dove si comincia? Bisogna pensare a dar da mangiare a quella gente, a togliere dalla strada quei ragazzi, a insegnare loro un lavoro. Altro che ospedale. La prima sera don Luigi prende alloggio dai paolini, che hanno un albergo in piazza Cardinal Ferrari. Si chiude in camera, non scende a cena. E piange, per la prima volta spaventato dalla missione all’apparenza impossibile che gli è stata affidata.
(...) Dopo la partenza del futuro papa, la curia resta più acida che mai. II nuovo arcivescovo, Giovanni Colombo, a incardinare don Verzé non ci pensa affatto. Gli uffici della curia lo proscrivono. Ma, il 16 giugno del 1961, per la prima volta, il sacerdote va a vedere quel luogo dove ora sorgono uno dei più moderni ospedali e uno dei centri di ricerca più avanzati del mondo. È il punto di partenza, è il momento di massima responsabilità dal giorno in cui decise di lasciare suo padre e la sua famiglia per entrare nella casa di un altro padre, don Calabria. «Il silenzio era immenso, solenne e desolato. C’erano acquitrini a perdita d’occhio, qualche cascinale, stalle, concimaie, filari di pioppi. Pensai a quella risaia piena di rane come alla metafora di un’umanità abbandonata, in attesa di Dio che guarisce, Refa-El in aramaico. E proprio mentre meditavo queste cose davanti alla terra che avrebbe sostenuto il Progetto, ho visto due anatre allungarsi improvvise dai ciuffi di riso sugli acquitrini e salire lente, percorrendo un arco, verso un punto indistinto nel cielo. Per un attimo le loro ali erano quelle dell’arcangelo Raffaele. Era il segno. Era il posto. Mi bastò». (...) Don Luigi Verzé ha ottantaquattro anni e non ha ancora imparato a fermarsi. «Io ho fretta e non mi piacciono i freni: quando vedo una cosa da fare, ritengo che debba essere fatta subito. Non c’è peccato di uomo che un altro uomo non possa commettere, così non c’è opera buona che chiunque di noi non sia in grado di compiere. Basta metterci tutta la propria pelle, al servizio della pelle degli altri. Il resto lo fa il top manager, quello che sta sopra di noi». (...) Ogni giorno, a una certa ora, percorre le corsie del suo ospedale per confortare gli ammalati gravi.

E da loro riceve la richiesta suprema: «Non voglio morire, mi faccia guarire». Allora don Luigi si china su quei volti sofferenti e, sfiorandoli, sussurra a ciascuno: «Oggi non te lo posso garantire. Ma quando sarò morto, se verrai a trovarmi sulla tomba, il mio Signore ti guarirà».

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