Cultura e Spettacoli

Le donne del Duce che non fecero storia

A Benito piaceva la «famiglia allargata»: la madre, la figlia Edda, la moglie e le amanti di turno. Un ritratto irriverente del sex symbol del Ventennio

Leggo nelle memorie - inedite - di Vincenzo Fagiuoli, industriale importante negli anni Trenta-Cinquanta: «La disgrazia di Mussolini è stata che, tutto sommato, non era coraggioso, e, nonostante le sue urla, era, nel fondo, un timido: basta vedere come si conduceva con le donne, alle quali non era capace di fare un minimo di corte. Le prendeva in modo piuttosto, anzi risolutamente, goffo: la preda non gli era difficile perché, nella schiera femminile, c’è sempre una notevole aliquota di donne fisicamente e spiritualmente incantate davanti alla persona importante».
L’appunto memorialistico mi capita sotto gli occhi durante la contemporanea lettura di L’Harem del Duce, di Gustavo Bocchini Padiglione (Mursia, pagg. 268, euro 17), che conferma in pieno la tesi di Fagiuoli: il quale, peraltro, nel marzo del 1943 perse tutte le cariche pubbliche e venne radiato dal Partito Nazionale Fascista perché non aveva voluto cedere a un intrallazzo economico di Marcello Petacci, armeggione fratello della favorita di Mussolini. Il dittatore, ormai al declino fisico e politico si sforzava di ignorare i maneggi del cosiddetto «clan Petacci», cui la giovane Claretta era del tutto estranea, come per godere in pace quell’ultimo, duraturo amore della sua vita. Paradossalmente, come scrive Bocchini Padiglione, anche se forse l’unica donna che amò davvero fu la moglie Rachele, al momento della morte accanto a lui c’era Claretta, perché «la moglie in quei tragici momenti si stava dannando nel tentativo di portare in salvo i figli. La povera Rachele si sacrificò anche in questo: Claretta passò alla storia come un’eroina, lei portò per tutta la vita le stimmate della massaia».
Se la bibliografia ufficiale attribuisce al Duce, in tutta la sua vita, una sessantina di relazioni «certificate», la leggenda popolare ci aggiunge due zeri. Certo è che, scrive ancora Bocchini Padiglione, «gli piacevano donne giovani o anziane; ricche o povere; popolane o gran signore; colte o ignoranti; sposate o nubili; puttane o ancora pulzelle»; e che per conquistarle non aspettò di diventare Duce, anzi «irrita soprattutto una certa parte politica, il fatto che abbia mietuto tanti successi in campo socialista e anarchico», quando era giovane, povero e perseguitato.
Da un’esperienza con una prostituta, a 16 anni, ricavò una blenorragia ma anche «un’improvvisa rivelazione del godimento sessuale»: «Svestivo, con gli occhi, le fanciulle che incontravo, le concupivo violentemente con il pensiero», confessò nell’autobiografia scritta a 28 anni. Furono pochi i suoi amori di qualche peso intellettuale; in gioventù una russa di sette anni più anziana, Angelica Balanoff, che lo introdusse al marxismo. Quando venne nominato direttore dell’Avanti! Mussolini la volle come vice-caporedattore ma la donna divenne una sua fiera oppositrice dal 1914 e nel 1926 fu costretta a emigrare. Ebbe migliore fortuna Margherita Sarfatti: «Mi perseguita col suo amore, ma io non potrò mai amarla. La sua spilorceria mi disgusta»; in compenso la fece collaborare fin dall’inizio al Popolo d’Italia e poi le affidò la direzione del mensile Gerarchia, di cui era proprietario.
Mussolini ebbe sempre una concezione della donna dominata dal possesso e dal godimento del conquistatore-vincitore. Da Duce, poi, entrò nel ruolo senza uscita che lui stesso aveva contribuito a creare: simbolo fallico del regime, instancabile e supremo procreatore della razza italica. Negli anni Trenta, all’apice della popolarità, riceveva molte fortunate, onorate di passare un’ora con lui: centro e simbolo di un regime superomista, aveva il diritto-dovere di dare l’esempio alla nazione. Consumava rapidamente i rapporti in piedi, senza togliersi gli stivali o altro, sistemando l’ospite sull’ampio gradino di pietra coperto da un cuscino davanti alle finestre del salone del Mappamondo, a palazzo Venezia.
L’Harem del Duce, sapido ma non pettegolo, e ben documentato, finisce con il chiarire che, al di là del dongiovannismo, Mussolini finì per crearsi «un harem ideale, come una categoria della mente, nel quale trovarono posto tutte le donne per le quali aveva provato affetto. In primis, da buon borghese, la mamma, la moglie, la figlia Edda, quella illegittima Elena Curti (anche lei al suo seguito durante i tragici giorni dell’aprile 1945), «le fanciulle con cui aveva avuto un legame, ragazze che frequentavano ancora il suo letto e donne per le quali, trascorso qualche anno, si era riaccesa, sia pur brevemente, la passione». Ma entrarono nell’harem del suo cuore anche la scrittrice musulmana Leda Rafanelli e la giornalista Magda Fontanges che sparò all’ambasciatore francese a Roma ritenendolo responsabile della fine della sua storia col Duce. E la pianista (anche lei francese) Marie Anne Brard.
Spietato nell’abbandono con tutte, con una soltanto fu particolarmente crudele, la trentina Ida Dalser, che lo perseguitò dopo avergli dato un figlio e finì male. La vicenda è molto ben raccontata nel libro e spiega, a rovescio, come in realtà Mussolini fosse attaccato alla famiglia, a quella ragazza romagnola con la quale iniziò a vivere nel 1910 e che sposò due volte, civilmente nel 1915 e religiosamente nel 1925. La soda praticità di Rachele fu sempre un elemento di equilibrio per Mussolini ma certo non gli fu di nessun aiuto‚ intellettuale o politico.

Del resto in famiglia il Duce amava ripetere: «Le donne devono badare alla casa, mettere al mondo dei figli e portare le corna».

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