La doppia morale della guerra Buona a Beirut, cattiva a Bagdad

Ma nelle operazioni estere le nostre forze non hanno i mezzi per agire in aree pericolose

È sempre un rischio giocare con la geopolitica. Le parole di Antonio Martino sono cadute nell’arena elettorale e hanno creato una turbolenza inaspettata. Si torna così a parlare di Irak, di Libano, di Afghanistan, di guerra e di pace. Al di là di tutto va dato merito all’ex ministro della Difesa di aver illuminato una questione quasi dimenticata. Almeno per un giorno il destino dei nostri soldati e delle forze armate non è relegato alla periferia del discorso politico. Martino suggerisce di ridurre, anche in modo drastico, la presenza italiana in Libano. Aumentare il numero di uomini in Afghanistan e inviare istruttori militari in Irak e Kosovo. Martino ha mosso i suoi carri armati sulla mappa del Risiko. Pochi si sono chiesti se le sue mosse sono corrette, razionali, coerenti, possibili, strategicamente efficaci. Molti, troppi, hanno risposto con la pancia, il fegato e i soliti pregiudizi. Le accuse a Martino sono frutto di un’equazione grossolana e tardo-ideologica. La guerra in Irak e Afghanistan è cattiva. Lì gli americani sono andati a fare gli invasori e la presenza italiana è un atto di complicità nei confronti dell’imperialismo yankee. Ergo: andare via dall’Irak è un dovere morale. I soldati italiani in Libano sono messaggeri di pace. La loro missione è fermare la guerra. Ergo: restare in Libano è un dovere morale. Quando si ragiona con la pancia nessuna scelta geopolitica ha senso. È solo la vecchia e stanca politica di casa nostra fatta con altre armi. Il risultato è vuoto chiacchiericcio da bar. Irak e Libano sono solo due bandiere, due simboli.
La breve accelerazione al ritiro delle forze da Bagdad, peraltro già previsto dal governo Berlusconi, e l’azzardo dell’intervento in Libano sono state le due misure di carattere strategico più qualificanti del governo Prodi, e sono state presentate proprio come la «discontinuità» con la politica (filo-americana e filo-israeliana) del governo Berlusconi. Le proposte di Martino (lo spostamento delle forze dal Libano all'Afghanistan) indicano la discontinuità in campo strategico-militare che il prossimo governo Berlusconi intende marcare nei confronti del governo Prodi, ed è giusto e democratico che l'elettorato sia messo in condizione di tenere conto anche di questo nell'esprimere il suo voto. Chi segue più da vicino le questioni militari, ritiene però indispensabile far prendere coscienza non solo agli elettori, ma alle stesse forze di governo, che prima di segnare una qualunque «discontinuità» di politica estera di sicurezza, occorre affrontare il nodo delle condizioni materiali in cui si trovano le nostre Forze Armate. Non si tratta infatti semplicemente di «raddoppiare» la presenza militare in Afghanistan, ma di impiegare almeno alcune aliquote delle nostre forze nelle operazioni di combattimento nelle aree veramente pericolose, e cioè nelle province meridionali, come ci è stato chiesto dagli Alleati. Ma per farlo non basta volerlo e ricevere un mandato politico dall'elettorato e dal Parlamento: occorre che le nostre forze siano davvero in grado di combattere, oltre che di costruire strade e ospedali e distribuire aiuti umanitari. Detto in poche parole: i nostri soldati non hanno i mezzi.

Basti vedere che il costo del personale rappresenta il 70 per cento del bilancio (una volta e mezzo la proporzione compatibile con l'efficienza minima) e che siamo l'unico Paese a impiegare le donne in incarichi di combattimento ravvicinato (il che indica quanto poco probabile sia considerata tale eventualità). La vera discontinuità con il passato è ricostruire, su basi del tutto nuove, la politica militare. Solo così si muta davvero strategia.
*Docente di storia delle istituzioni militari

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