Doppio binario La vita spericolata dei critici-affaristi

L’arte, diceva Marshall McLuhan, è qualcosa con cui si può sempre farla franca. Non sempre. Qualche volta il re resta nudo, come successe 25 anni fa a un re della critica come Giulio Carlo Argan, sbugiardato in tivù dai tre mattacchioni di Livorno autori delle tre teste di Modì. Il venticinquennale della storica bufala cade a pochi mesi dalla condanna, questa volta penale, di un altro celebre critico nostrano, Paolo Baldacci, considerato tra i massimi esperti di Giorgio De Chirico e dell’arte metafisica, che in una sua lezione definì «la più imitata negli aspetti esteriori anche se mai realmente capita». Talmente imitata che proprio il professore è finito sotto accusa per aver autenticato dolosamente quattro opere false del maestro di Volos. Il caso, ammesso che la condanna venga confermata, è in realtà la punta dell’iceberg di un marasma che da sempre ospita l’abbraccio mortale tra critica, mercato e una deregulation che a tutt’oggi in Italia non attribuisce in modo univoco il ruolo di «esperto», ed è terreno di scontro tra fondazioni, storici e referenti delle case d’asta. Inoltre, a mescolare pericolosamente le carte spesso ci pensano gli stessi artisti in vita e, successivamente gli eredi. Proprio De Chirico, a esempio, era solito retrodatare le sue opere facendole aumentare di valore.
Quanto allo storico Baldacci, risulta avere un passato di mercante in società per anni con un altro curatore ex gallerista, Philippe Daverio. Che ora lo difende: «È vittima di una guerra subdola tra i padroni delle perizie. Oggi su De Chirico l’ultima parola spetta all’omonima fondazione capeggiata da un avvocato d’affari romano. Il vero esperto sulla metafisica resta Baldacci». Ma le «relazioni pericolose», ammette, sono all’ordine del giorno. «Da che mondo e mondo - dice Daverio - ci sono critici compiacenti che per denaro sottoscrivono qualsiasi cosa. Le dico solo che fino a pochi anni fa, quando il mercato italiano era prevalentemente nazionale, a Milano una famiglia ricca su due aveva in casa senza saperlo un De Pisis o un Sironi falso». La questione è intricata soprattutto per l’arte contemporanea che infatti registra oggi il 75 per cento dei reati di falsificazione «ma dove - precisa Daverio - l’unica vera prova è l’individuazione del falsario come è stato per i falsi Modì».
Per mettere ordine sono stati creati i «cataloghi generali», anch’essi però affidati a critici di riferimento che spesso hanno carta bianca nell’attribuire gli originali. «Veri o falsi, se non altro - dice Daverio - i cataloghi generali mettono tutti d’accordo». I casi che fanno riflettere non mancano, come quelli di artisti morti giovanissimi e a cui cataloghi attribuiscono migliaia di opere. Come il caso di Piero Manzoni, scomparso a soli 33 anni e i cui lavori vengono battuti in asta per milioni di euro. Di fatto, nella catena che forma il sistema economico dell’arte e che vede legati a doppio filo musei, gallerie e case d’asta, la figura del critico resta ancora cruciale, oltre che per le attribuzioni delle opere, anche per le quotazioni degli artisti. Il critico Luca Beatrice, curatore del Padiglione italiano alla Biennale di Venezia, getta acqua sul fuoco: «È giusto che un critico muova il mercato, e lo fa come meglio crede. Mi hanno accusato di aver portato alla Biennale, e quindi al successo, artisti amici miei. Anche se così fosse, lo considero inevitabile...».
Leggenda vuole che il noto critico Achille Bonito Oliva, abbia dato vita alla fortunata Transavanguardia negli anni Settanta perché sollecitato da un potente gallerista svizzero, Bruno Bischofberger, che manifestava la stanchezza del mercato nei confronti del concettuale. Servivano giovani artisti dalla «Magna Grecia» che tornassero a dipingere quadri, e il pelide Achille scoperse il quartetto formato da Cucchi, Chia, Clemente e Paladino i cui dipinti hanno quotazioni a sei zeri. Ma forse il massimo esempio di critico «trasversale» è rappresentato dall’ex maoista Germano Celant, inventore negli anni Settanta dell’Arte Povera che presentò come un’«arte di guerriglia» da affiancare al clima rivoluzionario del ’68. E che fece la sua fortuna. Oggi Celant è l’esperto di riferimento delle opere dei maggiori artisti dell’epoca e, da teorico di un movimento antagonista alla potenza del mercato, è divenuto il direttore artistico della Fondazione Prada, magnificando la moda come «sistema massimamente creativo». Negli anni scorsi curò a Firenze per un cachet stratosferico la Biennale della Moda esponendo opere d’arte accanto a capi di abbigliamento. Anni luce da quando tuonava sprezzante: «L’artista, novello giullare, soddisfa i consumi raffinati, produce oggetti per palati colti...».


Altra figura emblematica nel panorama nostrano, quella del critico trevigiano Marco Goldin che vende mostre di alto richiamo mediatico di cui è anche il totale produttore attraverso l’agenzia intitolata «Linea d’ombra»; come il romanzo di Conrad, quello dei viaggi avventurosi.

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