Doppio colpo in poche settimane. Sempre a ridosso delle urne

Ci risiamo. Il colpo a Bossi arriva alla vigilia dei ballottaggi che la Lega vive in trincea. La cronologia di questa inchiesta a fisarmonica è quantomeno curiosa, come sottolineano molti lumbard. Il Secolo XIX apre il fuoco contro l’allora tesoriere Francesco Belsito il 9 gennaio scorso. La procura, anzi le tre procure - perché insieme a Milano spunteranno anche Reggio Calabria e Napoli - tacciono. A febbraio il quotidiano genovese torna alla carica e il 22 febbraio Belsito annuncia addirittura querela contro «l’attacco ignobile». I pm non muovono un dito. Intercettano. E aspettano. L’indagine emerge solo il 3 aprile, con le elezioni amministrative ormai in vista. E il colpo difficilmente può essere attutito. Per giorni e giorni i quotidiani raccontano gli affari della Lega, le spese pazze dei figli di Bossi, i diamanti e tutto il resto. In realtà, i pm continuano a ripetere che Bossi non è indagato e nemmeno i figli che pure escono a pezzi da questa storia.
Però la Lega continua a camminare, solo che cammina sulle gambe di Roberto Maroni. Che infatti corre a razzo in procura, abbraccia i pm che stanno stritolando il cerchio magico, agita la ramazza delle grandi pulizie. Bossi tentenna, sembra incerto sul da farsi. Alla vigilia delle elezioni, che per la Lega sono tutte in salita, il leader sembra voler rientrare nei giochi del partito e congelare le dimissioni. In realtà, come spiegano gli stessi leghisti, la mossa pare studiata per convogliare al voto l’ala bossiana, sempre più frastornata dalla non edificante lettura dei giornali con relativi verbali. Poi, nelle ultime ore, Bossi fa strada a Maroni che ormai ha messo la freccia per superarlo. E la famiglia Bossi, nell’angolo, viene puntualmente colpita e finisce al gran completo nel registro degli indagati. Ai ballottaggi mancano quattro giorni: il futuro dei lumbard è incerto, ma quello di Bossi appare segnato. Le tappe dell’inchiesta hanno scandito la vittoria dei maroniani, ma questa considerazione, una sorta di retropensiero per molti fan dell’Umberto, viene superata da un altro ragionamento: la Lega è stata colpita non una ma due volte e sempre a un passo dalle elezioni. È vero che in Italia si vota sempre: insomma, se le procure dovessero dare retta alle varie scadenze elettorali, potrebbero tranquillamente mettersi a riposo. Però i tempi dell’azione penale restano un mistero, per nulla glorioso, della nostra giustizia: Filippo Penati, per rimanere in terra di Lombardia, è stato indagato a scoppio ritardato in un comodo rimpallo fra le procure di Milano e Monza, nell’ossequio formale di quella competenza territoriale altre volte oggetto di scontri furibondi. Penati era capo della segreteria di Bersani, ma quando Monza ha azzannato i suoi presunti affari le dimissioni da quel ruolo strategico erano già arrivate da un pezzo.

Il presidente leghista del Consiglio regionale del Pirellone Davide Boni, invece, è finito sotto i riflettori della procura pochi giorni prima di Belsito. Anzi, la giostra delle indagini leghiste è cominciata con lui e alla fine ha travolto pure lui. La liturgia delle indagini resta un rompicapo.

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