da Roma
La nota è secca, quasi stizzita: «A proposito dellintensificarsi di dichiarazioni e appelli in merito al caso Contrada, si fa notare che il presidente della Repubblica ha ben presente, di fronte a qualsiasi domanda di grazia, tutte le ragioni da prendere in considerazione, quanto stabilito dalla Corte costituzionale e le procedure da rispettare». Poche righe, ma necessarie per difendersi da un duplice e opposto assedio. Insomma basta pressioni, manda a dire Giorgio Napolitano al fronte del sì e al fronte del no, smettetela di tirarmi per la giacca perché so benissimo quello che devo e quello che posso fare.
Ad esempio, è presto per parlare di grazia, forse anche tecnicamente improprio. «Qualsiasi provvedimento in materia di differimento della pena - si legge nel comunicato del Colle - basato sulla gravità delle condizioni di salute dei condannati che stiano scontandola in carcere è, comè noto, di esclusiva competenza della magistratura di sorveglianza». Cioè, prima di qualunque iniziativa presidenziale, serve un accertamento delle condizioni di Contrada e un parere dei giudici che si occupano della vicenda. Lipotesi sul tappeto è un provvedimento di clemenza di tipo umanitario, una sospensione di reclusione come nel caso Sofri. Non a caso la nota del Quirinale parla di «differimento della pena» e non di grazia.
Questo non significa che Napolitano sia insensibile allappello che gli hanno rivolto amici e parenti di Contrada. E infatti, si sottolinea, già nei giorni scorsi il presidente ha di fatto accelerato la pratica, «acquisendo notizie al ministero della Giustizia sullo stato del procedimento di differimento» e chiedendo al tribunale di sorveglianza di Napoli «di valutare lopportunità di anticipare da data delludienza di trattazione». Subito dopo, ha girato al Guardasigilli la «lettera-supplica» che gli aveva spedito lavvocato Lipera.
Il capo dello Stato ha dunque fatto le sue mosse, chiedendo rapidità a chi di dovere. Se poi il dossier tornerà sul Colle sotto forma di grazia, lui deciderà sulla base della sentenza della Consulta che ha attribuito al solo presidente il potere di un atto di clemenza.
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