A Dublino il debutto s’inceppa «Rifarò il concerto gratis»

Difficoltà tecniche e un imprevisto finale frenano allo stadio Groke Park l’apertura del tour mondiale

Paolo Giordano

nostro inviato a Dublino

Oplà, che boato: mica l'avevano vista quella botola. Quando s'è aperta - e Robbie Williams si è materializzato come Houdini sul palco del Croke Park - ottantamila voci gli hanno dato il benvenuto a scoppio ritardato. Prima hanno messo a fuoco questo ragazzo in jeans e giacca trequarti con i revere rossi che si sbracciava in scena tra il fumo dei fuochi d'artificio. Poi sono stati accalappiati dal ritmo della sua Radio. E infine eccola: l'ovazione dello stadio, insolente e golosa, ha aperto il tour mondiale che si chiama come una rivista di appuntamenti erotici, Close Encounters (cioè Incontri ravvicinati), ha piazzato quasi due milioni di biglietti e festeggia quella che è la popstar più tosta del bigoncio se non altro per manifesta superiorità. E allora qui, mentre la luna trasparente sale appena sopra le tribune nuovissime, a lui basta salutare chiamando «folks» la gente (invece del banale «people» o «guys») per avere subito lo stadio affettuosamente in pugno perché, oltretutto, «this is not a drill», questa non è un’esercitazione, come si leggeva sui megaschermi prima che iniziasse la sarabanda di petardi. Quando i musicisti erano già sul palco, lui, che ha 32 anni e inglesemente un po' li dimostra, era ancora in camerino a guardarsi la partita tifando contro la Germania (d'altronde mai visto uno di Stoke on Trent sostenere una squadra tedesca) e rimuginando sugli obblighi contrattuali che lo fanno partire in tournée proprio adesso quando si capisce lontano un miglio che, potendo, se ne sarebbe rimasto davanti alla tivù con birra e caesar salad. E invece gli tocca interpretare, per la prima di altre quaranta volte nei prossimi mesi, tutti i ruoli che alla fine tracciano il suo identikit psicanalitico, metà entertainer e metà romanticone. Certo, all'inizio è un Rock dj, che si muove come una majorette e salta a due a due i gradini di quella piattaforma infilata come una virgola fin dentro la platea. Poi è il ragazzaccio pentito in Trouble with me. E diventa il viaggiatore di Trippin' che filosofeggia: «Prima ti ignorano, poi ti ridono in faccia e ti odiano, poi ti combattono e alla fine tu vinci». In fondo è accaduto così anche a lui: è ripartito tra le pernacchie dopo i Take That e ora è qui a fare l'Elton John del Duemila, molto più intrattenitore che cantante, molto più attore che interprete. Insomma, è capace di tenere il palco senza dominare la voce (per fortuna ci sono quattro coriste). Di mettere in scaletta almeno 10 successi mondiali su diciotto brani (e ne manca uno, Supreme). E di prendere in giro sua maestà Mick Jagger dei Rolling Stones senza che nessuno, ma proprio nessuno, possa fare a meno di sorridere quando inizia a storpiare Satisfaction e confessa: «Io ho 32 anni e mi sento già bollito, figurarsi lui che ne ha 105». Oddio, qualche minuto dopo si è seduto sullo sgabello con gli occhioni lucidi a cantare Pure e si è calato tanto furbescamente nella parte, lacrimuccia compresa, da sembrare davvero un coetaneo del re dei trasformisti. A proposito: quando sul palco arriva l'inatteso Jonathan Wilkes a duettare in Me and my shadow, nessuno si è meravigliato che quest'anonimo amico, tra l'altro molto elegante, cantasse meglio della conosciutissima superstar. Tanto poi lui annuncia che «voglio fare il più grande karaoke della storia» e nessuno ha il tempo di riflettere: le parole di Strong iniziano a scorrere sui megaschermi e un coro da ottantamila copre (finalmente) i clamorosi impicci acustici che hanno azzoppato tutto lo show. Perciò ovvio che, quando è il momento di salutare gli appena riformati Take That («Mi hanno invitato ai loro concerti ma devo fare i miei»), lui inizi a cantare una svogliata Back for good, con le parole che vanno da una parte e la musica drammaticamente dall'altra. Non si sono ricongiunte nemmeno nella sfilacciata Feel o in Come undone, quando lui ha divagato imboccando, e divertendosi a farlo, i versi di Take a walk on the wild side di Lou Reed, du dudù... Poi buio. Quando rispunta fuori è lassù, in cima alla struttura metallica, a trenta metri da terra (e per ripararsi dal freddo indossa una tuta bianca, con griffe sparata sui megaschermi). D’altronde Let me entertain you, lasciate che vi diverta, come recita il brano che il gruppo suona sul palco e lui canta là in alto prima di tornare sulla terra e ammettere con classe: «Avrei dovuto scendere con una gondola meccanica che si è inceppata.

Stasera non mi sono piaciuto, perciò prometto che rifarò il concerto gratis entro la fine dell’anno». E allora canta Kids, evita la prevista Angels e torna nei camerini. Le partite in tv sono finite, il suo campionato è invece appena iniziato e scusate se il riscaldamento, talvolta, ha qualche imprevisto.

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