Fu Giorgio Bocca a confessare che l’assassinio di Mussolini ebbe soprattutto il grande merito di impedire che il capo del fascismo, sottoposto a pubblico processo, rivelasse l’entità della volontaria e volonterosa adesione degli intellettuali al regime. Su quel passato scomodo, per molti decenni calò infatti un compatto muro di silenzio, appena forato dalle denunce di pochi (Leo Longanesi, Indro Montanelli) che ricordarono quanto breve fosse stato il cammino che aveva separato, per tantissimi uomini di cultura, la cattedra, il palcoscenico, la testata del giornale, la copertina del libro, listati dal fascio littorio, dalla camicia rossa e dalla tessera scudocrociata. Poi quell’argomento venne utilizzato a fini meramente polemici soprattutto da esponenti vicini alla destra neofascista (Mario Tedeschi sulle pagine del Borghese) e come arma di ricatto politico e strumento di regolamento di conti interni nelle fila del Pci.
Solo molto recentemente i retroscena di questo cambio di regime e di casacca sono divenuti oggetto di ricerca storica, e hanno conosciuto persino qualche dignitosa forma di divulgazione. Su questa materia, si misura ora Pierluigi Battista nel volume Cancellare le tracce. Il caso Grass e il silenzio degli intellettuali dopo il fascismo (Rizzoli, pagg. 127, euro 18). Nulla di veramente nuovo in questo libro, che si basa però una ricchissima serie di fonti secondarie (la cui descrizione occupa quasi la metà delle pagine) e che ha la grande capacità di utilizzare il già detto con un’abilissima strategia narrativa. Ne viene fuori un ritratto vibrante e appassionato della «grande bugia» che attraversò il secondo dopoguerra italiano e una rappresentazione impietosa del sistematico trasformismo di quella stagione, dove vengono elencati puntualmente i fedeli di Mussolini frettolosamente purificatisi nel bagno lustrale dell’antifascismo, che sarebbero divenuti i «padri della patria» della prima Repubblica. Presidenti e vicepresidenti del Consiglio (Fanfani, Spadolini, Taviani), alti magistrati, giornalisti democratici (Scalfari, Bocca), registi progressisti (Lizzani), maestri della cultura e della storiografia di sinistra (Galvano della Volpe, Delio Cantimori, Ernesto Ragionieri), anche un attore di successo, poi insignito del Nobel (Dario Fo). Un catalogo, così lungo e così complesso, che si può tranquillamente scusare Battista per esser incappato in qualche svista, come quando definisce come «pura e semplice menzogna» la notizia dell’iscrizione al Pnf di Adolfo Omodeo, che invece è attestata (insieme a quella di De Ruggiero) da testimoni al di sopra di ogni sospetto come Piero Calamandrei e Gaetano De Sanctis (uno dei pochissimi docenti universitari che rifiutarono il giuramento di fedeltà al regime), che pure confessava di comprendere il passo falso di quegli intellettuali in considerazione della necessità di mantenere le loro famiglie.
Attenuante, questa, comune a tanti italiani, che il nuovo governo, uscito dalla notte del 25 luglio 1943, aveva proclamato però di non voler prendere in considerazione, nel momento in cui si apprestava ad effettuare una punizione rapida ed esemplare di quanti fossero stati collusi con il regime fascista. Già, subito dopo il golpe di Palazzo Venezia, il nuovo ministro dell’Educazione Nazionale riuniva una commissione d’epurazione per ripulire università, centri e istituti di cultura dai veleni instillati dalla dittatura. La misura parve a Calamandrei troppo improvvisata e frettolosa, e tale da dar luogo piuttosto a semplici «vendette personali». Ma su questo punto la spinta dell’opinione pubblica antifascista fu irresistibile, soprattutto da parte dei membri del Partito d’azione. Mario Vinciguerra domandava non giustizia ma «rappresaglia» contro i crimini, anche di opinione e parola, commessi durante il Ventennio, portando a sostegno della sua richiesta il precedente storico del «Terrore giacobino» e Carlo Levi sosteneva che l’uccisione di Gentile doveva essere considerata come la premessa per un drastico repulisti degli ambienti intellettuali contaminati dal fascismo. Anche Palmiro Togliatti rodomontava sulle pagine dell’Unità e di Rinascita, dichiarando che, dove fosse venuto meno il rigore delle leggi, la punizione dei colpevoli sarebbe stata affidata alla «vendetta plebea». Più pacatamente Croce parlava della necessità di esercitare una «giustizia politica», che, come sappiamo, non è soprattutto funzionale alla conversione forzosa dell’avversario al credo ideologico divenuto dominante.
Al di là dei tanti proclami incendiari, la macchina dell’epurazione antifascista si trasformò infatti in una procedura di spregiudicato reclutamento del personale intellettuale fascista. Pratica che venne utilizzata da tutti, indistintamente. Non solo dal Pci, che pure divenne, in questo modo, nello spazio di un mattino, da partito operaio, «partito degli intellettuali». Anche dalla Dc che riuscì a mantenere in servizio tutti quei docenti universitari chiamati per «chiara fama», durante la dittatura, alla cattedra, per riempire i vuoti lasciati dal licenziamento di tanti e più degni professori ebrei. Non solo dalla Dc, ma anche dalle forze di democrazia laica e liberale, non escluso lo stesso Partito d’azione. Sotto la protezione dei partiti del Cnl la stragrande maggioranze degli intellettuali italiani compì, senza scosse e senza traumi, il brevissimo viaggio dal fascismo all’antifascismo.
Quella transumanza, confusa e disordinata, destò sicuramente qualche scandalo anche nelle stesse forze democratiche. Croce avrebbe commentato amaramente lo spettacolo della «folla d’intellettuali o semi-intellettuali, che s’iscrive, specie in Roma, al comunismo, e che ricorda tristemente la ressa che consimili arrivisti fecero per iscriversi al fascismo». Omodeo, chiamato, nelle vesti di rettore dell’ateneo napoletano, a purgare quell’università dagli elementi fascisti, avrebbe confessato pubblicamente di essere riuscito a licenziare solo «qualche bidello». Ma più drammatica ancora era la sua testimonianza riservata (conservata nell’Archivio centrale dello Stato e fino a ora inedita), contenuta nella lettera inviata al presidente del Consiglio Parri il 3 agosto 1945, dove si parlava di alcuni professori universitari «spie notorie e propagandisti del fascismo», anche dopo il luglio del 1943, per i quali neanche l’accertata imputazione di aver attivamente collaborato con le forze di occupazione naziste, era stato motivo sufficiente per decretare il loro allontanamento dalla cattedra.
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