Cronaca locale

Due milioni truffati all’Erario, cinesi a processo

Enrico Lagattolla

Basi operative, conti correnti, movimenti di denaro da e verso l’Italia, traffici illegali di prodotti di lusso, documenti falsificati, investimenti immobiliari. Le indagini della Guardia di Finanza, coordinate dal pubblico ministero Rossella Penna, hanno portato alla luce l’attività di una rete criminale che faceva capo a cinesi e malesi residenti a Milano. In tutto, nove persone che oggi risponderanno a vario titolo del reato di associazione per delinquere finalizzata alla truffa, davanti al giudice per le udienze preliminari Mariolina Panasiti.
Nello specifico, vengono contestati i reati di truffa aggravata nei confronti dello Stato e di alcune delle più importanti marche di moda (Hermès, Louis Vuitton, Prada, Bulgari, Rolex, Dior, Cartier, Gucci, Chanel), di falso materiale in atto pubblico, e di contraffazione di pubbliche impronte doganali. Illeciti commessi nel corso di tre anni, tra il 1999 e il 2002.
Un sistema ingegnoso, con cui i nove avrebbero beneficiato illegittimamente dei rimborsi Iva attraverso la procedura del cosiddetto «Tax Free», e guadagnato dalla vendita della merce sui mercati asiatici, nei quali il valore dei prodotti supera mediamente del 40 per cento quello del mercato italiano. Il danno per l’Erario, in questo modo, è stato valutato intorno ai due milioni di euro. Rilevante, anche in termini di immagine, quello per le case di moda.
Il gruppo acquistava a Milano grosse quantità di merci di lusso, organizzando una rete di piccoli acquirenti al dettaglio. Le cosiddette «formiche», cinesi occasionalmente reclutati per strada dietro un esiguo compenso, e apparentemente senza alcun legame tra loro. Subito dopo l’acquisto, però, la merce - e le relative fatture - venivano acquisite dagli indagati, che le concentravano in un immobile di loro proprietà, in via Zuretti. Compilate le fatture, le presentavano alle varie società di Tax Free, come la «Global Refound Italy», la «Cash Tax Free Shopping», la «Centax Spa», la «Tax Free Vat Refound Service for tourist Srl», che anticipavano i rimborsi dell’Iva corrispondenti a ciascuna fattura, e accreditavano le relative somme di denaro su diverse carte di credito, tutte appoggiate a banche di Hong Kong, Kuala Lumpur, Tokyo e Nagoya.
Di più. Falsificando il timbro della dogana di Segrate e il visto del funzionario doganale, l’organizzazione attestava l’uscita dal territorio europeo della merce, ufficialmente esportata da un singolo turista e con la falsa indicazione di «articoli di scarso valore». In realtà, i prodotti di lusso venivano raccolti e imballati negli immobili di via Zuretti, via Fornari, via Berna e via Marghera, le vere basi operative dell’organizzazione. Di lì, attraverso la società di spedizione «Nippon Express Italia Srl» (gestita da uno degli indagati), raggiungeva i mercati asiatici, dietro richiesta di società di Hong Kong e Tokyo.
Ma si va oltre. Perché quanto usciva sotto forma di beni di lusso, tornava in Italia sotto forma di denaro, da reintrodurre nel circuito criminale. In parte per finanziare l’acquisto di nuovi prodotti, in parte per consentire all’organizzazione di acquisire gli immobili che sarebbero diventati le basi operative del gruppo. In affitto, come in via Zuretti, o di proprietà, come quello di via Fornari (intestato a un prestanome), o di via Marghera, dove si trova anche il ristorante di uno degli indagati.
È attestato, infatti, il transito di consistenti somme di denaro su conti correnti riconducibili a quattro degli indagati, due accesi presso gli sportelli del Credito Italiano in piazza Cordusio, il terzo al Banco di Brescia in via Silvio Pellico, l’ultimo alla Banca Popolare Commercio e Industria di Milano in via Paolo Sarpi.

In quest’ultima, in particolare, sono stati scoperti numerosi bonifici che periodicamente venivano versati da diverse banche di Hong Kong.

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