Cultura e Spettacoli

Due monaci malandrini nel convento della scrittura

Milano, 1947: una poetessa sedicenne incontra un uomo già sposato e padre...

Quando due artisti si incontrano e l’Eros ci si mette di mezzo, quasi mai i biografi raccontano di un tranquillo «affare» tra colleghi. Piuttosto, diguazzano su sparatorie (Verlaine e Rimbaud), su appassionati amori (Aragon per Elsa Triolet), su miseria e su botte (Campana e Aleramo), su duplici suicidi, o su chi dei due abbia avuto il merito di iniziare il partner all’arte. È questo il caso di Alda Merini e Giorgio Manganelli: «Quando lo violentai, lui rimase senza parole... per mesi e mesi, finché si decise a prendere in mano la penna. Fui io che feci di Manganelli un grande scrittore».
Diversi anni dopo, lui fornì la propria versione in un’intervista; e, senza far nomi, constata che sconfitta amorosa ed esordio artistico possono coincidere: «L’amore è un eccellente combustibile per alimentare il malessere che può condurre alla letteratura. È importante, estremamente importante che l’amore vada male. L’amore è la più importante matrice di menzogna, e la menzogna la più grande matrice di mondi...». Ma si tratta di sentimenti e vicendevoli influenze che, complici la creatività autobiografica della Merini e la natura riservata di Manganelli, sono - e rimarranno - difficili da cogliere nella loro essenza. Ripercorriamo i tratti principali.
Milano, 1947. L’edificio democratico della nazione non ha ancora messo le fondamenta costituzionali, quando una ragazza sedicenne, già poetessa apprezzata da Giacinto Spagnoletti, incontra un uomo sui venticinque anni, sposato e padre di una bambina, alto, in sovrappeso. Finì nelle mani della giovane autrice di versi Alda Merini: «... ero così tremenda che mi soprannominò la “bakunina” e il nostro amore andò avanti a suon di schiaffoni».
Fu una relazione disordinata e impossibile. Un marcato disagio psichico incombeva su entrambi, tanto da sfiorare un caso clinico. Angosce tremende, quelle di lei molto vicine alla follia. Manganelli fece il possibile per evitarle l’internamento in manicomio. La condusse da Franco Fornari, il quale ottenne che lei andasse a lavorare per pagarsi la terapia, durata cinque anni. Fu proprio Fornari a coniare lo sfacciato esergo che introduce molte prose della Merini: «Il manicomio è come la rena del mare: se entra nelle valve di un’ostrica, genera perle».
Intanto gli incontri tra i due protagonisti proseguivano, anche se «coloro che credono che noi facessimo l’amore sui tavolini di un bar letterario sbagliano, in realtà meditavamo la morte dei nostri genitori» (Alda Merini). È possibile rintracciare diversi passi della poetessa su questo lato edipico, indicativo di come la relazione con Manganelli fosse intessuta di nozioni psichiatriche.
Quello che invece vide Maria Corti lo possiamo leggere nell’introduzione a Vuoto d’amore della Merini: «\ ogni sabato pomeriggio lei e Manganelli salivano le lunghe scale senza ascensore del mio pied-à-terre in via Sardegna e io li guardavo dalla tromba della scala: solo Dio poteva sapere che cosa sarebbe stato di loro. Manganelli più di ogni altro l’aiutava a raggiungere coscienza di sé, a giocarsi bene il destino della scrittura al di là delle ombre di Turro».
Come spesso accade, Fornari diventò un parafulmine foriero di gelosie: e tra lui e Manganelli corsero male parole. L’internamento di Alda in manicomio divenne sempre più una realtà possibile e, alla fine, vi passò così dieci anni. Dio sa cosa avrebbe pensato Michel Foucault leggendo la cronaca di questa ospedalizzazione, Reato di vita: «... quei personaggi, dai medici ai malati, sono passati al vaglio delle mie ossa e ho capito, stranamente ho capito, che c’è una tale coesione tra il bene e il male, che c'è una tale voglia naturale di sopprimere il fratello che già nei manicomi c'è la premessa per la guerra...». La prefazione a quest’ultimo libro è di Manganelli, uno dei pochi scritti da lui dedicati all’antica amante. Vi leggiamo: «Nello spazio che gli uomini chiamano “malato” nulla accade che non sia apparizione, che non porti seco una dimensione di bagliore, e non venga avvolto in una gigantesca, mostruosa vestizione d’ombra».
Alla fine del 1953, qualcosa si ruppe irreparabilmente tra la Merini e Manganelli. Questi non riusciva, stando alle parole scritte di Alda, a ottenere un divorzio consensuale dalla moglie. Fuggì allora su una Lambretta alla volta di Roma. Ma si trattò di fuga? Il racconto della figlia di Manganelli, Lietta, è più verosimile: suo padre e sua madre vivevano a Milano in una casa di dieci stanze, perfetta per chi non poteva soffrirsi. (Riguardo al matrimonio, lo scrittore amerà sempre citare Orwell: «Quando una persona coniugata viene trovata uccisa, la prima persona che viene sospettata è il coniuge. Questo la dice lunga su quello che la gente pensa del matrimonio».) Un giorno Giorgio arriva a casa, trova delle valigie pronte e dice alla consorte: «Oh che bello, viene a trovarci tua madre?». «No, sei tu che te ne vai». Esiste anche la versione dello sposo fedifrago, di tutte la più laconica: «Preso da un’incompatibilità affettiva con il grigiore di Milano, mi sono autodeportato a Roma».
Con l’arrivo nella capitale Manganelli comincia lentamente a trovare la sua formula di scrittore. Pochi anni, e uscirà Hilarotragoedia. Gadda si adirò per quella che ritenne una parodia del suo stile, ma l’autore, che si manteneva come insegnante di inglese (poi professore universitario), aveva attirato sufficiente attenzione critica ed editoriale. Da quel momento, non si contano i libri, gli articoli, le prefazioni e le interviste. Fu anche traduttore, prefatore di classici, direttore di una collana per Guanda, dove fece pubblicare i suoi amati Daniello Bartoli e La novella del grasso legnaiuolo. Barocca, funambolica, con momenti di assoluta gigioneria e altri di angoscia tipicamente novecentesca, la sua opera ha una sibillina tragicità, un suo specifico incantesimo che ancora oggi non smette di operare sul lettore. Non passa anno che qualche suo scritto inedito o disperso non venga antologizzato: dai resoconti di viaggio (tra i più atipici e stranianti che si possano leggere) agli articoli che hanno per tema la psicanalisi o la religione.
Manganelli, scomparso nel 1990, intercalò nella sua opera non pochi passi che possono esser letti come un commento all’amore con Alda. In un racconto dal titolo Sarcofago nuziale, raccolto ne La notte (Adelphi), si legge: «Entrambi furono rozzi, sleali, poveri, scontenti, fedeli (sic). Non ebbero pazienza l’uno per l’altra. Si disprezzarono. Non si odiarono, perché la loro povera anima non era capace di odio; erano sterili, cauti, allegri. Amavano bere, raccontavano storielle oscene, erano severi con gli innocenti, codardi coi colpevoli. Il loro letto non fu il fidato rifugio delle confidenze serali, ma un luogo di amare riflessioni... Non fecero mai lo stesso sogno nella medesima notte; non dissero mai le medesime parole nello stesso respiro... Del resto, queste sono cose che accadono di rado. Durante tutta la loro vita, essi vennero preparando questo sarcofago nuziale».
Nelle interviste ancora una volta non menziona la Merini: «L'amore è stata una parte importante della mia vita, secondo soltanto allo studio delle lingue». O provocatorio, impietoso, persino verso il proprio passato: «L’innamorato è uno degli esseri più esiziali che esistano. È una figura che va benissimo se si tiene conto che appartiene a questo Parco Lambro della demenza...». Uomo di un’ilarità isterica, dolorosissima, chiuse il suo libro Amore - composto da immagini di acqua, teschi, grotte, brughiere, desolazioni - con le parole: «Lo sai dunque che questa è la descrizione del nostro amore, che io non sia mai dove sei tu, e tu non sia mai dove sono io?».
Nell’opera di Alda Merini, invece, Manganelli è nominato con frequenza, sia nelle prose autobiografiche che nei versi. La poetessa milanese non ha mai nascosto la loro storia d’amore tra cerebrali intarsi di parole. È stata più diretta, se si vuole più femminile. Abbiamo addirittura un’intera plaquette dedicata all'amato, pubblicata da La Vita Felice: La palude di Manganelli o Il monarca del re. Vi troviamo passi anche profondi. Sulla fama e sui curiosi: «Molta gente mi ha/ domandato di te,/ come se fosse possibile/ domandare a un morto/ che cos’era in vita». Sullo scrivere, passione comune: «Il tuo amore mi ha lasciata povera/ ma non volevo nient’altro. Io e te siamo stati monaci malandrini/ nel salace convento della scrittura». E un’amara confessione: «Ma non eri tu ad avermi, era la psicanalisi./ E in fondo, Giorgio,/ ho sempre patito/ quel che ti ho fatto patire».


(1.Continua)

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