Lui c'era, e gradiva. Gradiva così tanto che ha persino composto una canzone diventata in poco tempo l'inno del popolo radiofonico.
«Si intitola La radio e, devo dire la verità, non l'ho mai sopportata, per quella sua melodia facile, da jingle pubblicitario. Ma la gente l'ha amata da subito, e oggi non posso non eseguirla dal vivo».
Parole e ricordi di Eugenio Finardi, cantautore ribelle e impegnato degli anni Settanta, appassionato di radio e della grande rivoluzione della sentenza n° 202. Ieri lui allinaugurazione della mostra cera.
«Questa mostra al Museo della Scienza è per me una cosa entusiasmante - spiega Finardi - non solo perché racconta un mondo affascinante, ma perché avviene qui. Sono cresciuto in una famiglia rigorosamente atea e la domenica, quel positivista di mio padre mi portava qui invece che a messa, a vedere il museo della scienza e della tecnica, ciò che per lui era un tempio laico».
E per il tempio della sua infanzia, il cantautore ha una proposta «folle e provocatoria»: «Perché non fare una piccola radio qui, nel museo. Magari da dare in mano ai ragazzi che studiano comunicazione? Per spiegare nei fatti l'atmosfera di quella stagione?». U
Una stagione, spiega Finardi, «fatta di dischi scelti d'impulso e buttati in onda, senza la dittatura della playlist voluta dalle etichette. Due piatti, un mangiacassette, un microfono e un telefono per far parlare la gente in diretta.
Infine, ai futuri "artisti" della radio, un consiglio: «Lo stesso che do a chi vuol fare musica: siate coraggiosi. Per fare radio e musica serve coraggio, rifiutando l'omologazione nei suoni e nelle parole».
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