DUMAS L’ultima stoccata a sua maestà l’imperatore

Il libro uscì nel 1869 sul «Grand Moniteur Universel», ma poi finì nell’oblio. Claude Schopp l’ha ritrovato

DUMAS L’ultima stoccata a sua maestà l’imperatore

Nella primavera del 1869 Alexandre Dumas si accorse che nello scrivere la mano gli tremava. Aveva sessantasette anni, non si era mai risparmiato, non aveva un soldo, ma non aveva debiti, era ancora famoso, ma non era più di moda. Con il figlio cercò di mascherare il problema: «È vero, ma si tratta di un fatto passeggero che non deve preoccuparti. Anzi, è stato proprio il riposo a renderla così tremante. Che vuoi? È talmente abituata a lavorare che quando le ho fatto il torto di mettermi a dettare invece di scrivere io stesso, lei, per non stare ferma, si è messa a tremare dalla rabbia. Appena mi rimetterò a scrivere sul serio, lei ritroverà altrettanto sul serio il suo incedere maestoso».
Con gli amici e con i collaboratori, fu più franco e del resto il mentire gli si sarebbe rivoltato contro: ne aveva bisogno per ricerche, consultazioni, recupero di libri che altrimenti non avrebbe saputo come procurarsi. «Da un anno e mezzo a questa parte sono preda di una debolezza fisica alla quale resisto solo con la forza morale». E ancora: «Non posso camminare a causa del mal di cuore; questo mi dà l’ardire di dirvi che sono sempre in casa e vi aspetto all’ora che preferite».
Era l’inizio della fine, insomma, e per chi aveva tanto scritto, tanto vissuto, tanto dilapidato, probabilmente non doveva essere nemmeno una sorpresa. Solo che proprio in quell’anno in cui le forze cominciarono a mancargli, Dumas stava lavorando al libro grazie al quale completare la sua storia romanzesca della Francia e insieme riconciliare la sua storia personale con quella nazionale. Ha raccontato l’Ancien Régime, la Rivoluzione e la Restaurazione, ma fino ad allora si è tenuto lontano da Napoleone e dall’Impero perché lì c’è il buco nero della sua famiglia e della sua umiliazione: il padre generale schiacciato dal tallone di ferro di Bonaparte, il figlio che quel padre adorato sa essersi lasciato morire, troppo offeso per voler continuare a vivere.
Così, quel 1869 è in fondo una lotta contro il tempo. Dumas ha tutto chiaro in testa, tema, svolgimento, conclusioni. Il suo testamento letterario si chiama Hector de Saint-Hermine e attraverso la figura di un giovane nobile cui Napoleone ha fatto grazia della vita trasformandolo però in spettro senza nome, condannato soltanto a farsi ammazzare sul primo campo di battaglia, racconta l’ascesa, il declino e la caduta dell’aquila imperiale. Da gennaio a ottobre escono sul Grand Moniteur Universel, con cadenza variabile, 118 puntate, poi la pubblicazione si interrompe per non più riprendere. L’anno dopo è Dumas stesso che se ne va per sempre.
Mai raccolto in volume, l’incompiuto Hector de Saint-Hermine scivolò nell’oblio e se ne persero le tracce, dimenticato, seppellito come se non fosse mai stato scritto. Nel 1980 Claude Schopp, che di Dumas è il massimo specialista, si imbattè per caso in biblioteca nelle pagine microfilmate del Moniteur che lo avevano ospitato, ne ricostruì la genesi e, di fatto, lo riportò alla luce, ma nel farlo si rese conto che se la pubblicazione si era interrotta a quella data, Dumas aveva comunque continuato a scriverlo... Il Saint-Hermine uscito come feuilleton si fermava infatti al 1806, con il protagonista impegnato in Calabria contro i briganti sanfedisti, ma dalla corrispondenza dell’autore si capiva come in quel 1870 ultimo e fatale egli già si interessasse a un’ambientazione legata alla campagna di Russia del 1812... Nel 1990, ancora cercando, Schopp rintracciò negli archivi di Praga 27 fogli manoscritti di Dumas in cui la storia di Saint-Hermine continuava: siamo nel 1809 e il nostro eroe è alla corte di Eugenio Beauharnais, principe di Venezia. Il seguito, sarebbe il caso di dire, alla prossima scoperta...
Il romanzo incompiuto, i capitoli praghesi ritrovati e la loro storia, il piano generale dell’opera come lo stesso autore lo aveva pensato e redatto, il lavoro di editing necessario a eliminare errori di stampa, sviste, ripetizioni, compongono ora questo Il cavaliere di Saint-Hermine che Sellerio presenta in prima edizione italiana (due volumi, pagg. 1507, euro 26), una pubblicazione che è allo stesso tempo un avvenimento editoriale e una festa per chi legge. Amante dei colpi di scena, delle agnizioni e dei ritrovamenti, Dumas ne sarebbe stato felice.
Testamento letterario, abbiamo detto, e sul punto vale la pena di soffermarsi. Perché a suo modo Alexandre (Dumas) è Hector (de Saint-Hermine): è l’uomo a cui Napoleone ha tolto tutto e che però sceglie egualmente la nazione e non la fazione, si identifica nella Francia, non in una dinastia, un capo, una forma statuale. Nato nel 1802, a tredici anni il ragazzo Dumas ha fatto ancora in tempo a vedere dal vivo, nei giorni dell’Elba e di Waterloo, «l’uomo che, mentre pesava con tutto il suo genio sulla Francia, aveva pesato in modo particolare e opprimente su di me». Alexandre è il figlio di un padre dallo stesso nome, il generale Alexandre Dumas che, una volta al potere, Napoleone sprezzantemente chiamerà «il negro», perché mulatto, ma di cui, quando sono ancora dei pari grado e dei compagni d’arme, invidia e teme il fisico erculeo. Stando in sella e aggrappandosi alle travi della scuderia, è in grado di sollevare il suo cavallo stringendolo fra le cosce... Lo indispettisce anche la sua fierezza. Nella campagna d’Egitto, dove comanda la cavalleria, gli ha detto che non subordinerà mai gli interessi francesi a quelli di un singolo generale, anche grandissimo: «Sono disposto a fare il giro del mondo per la gloria e l’onore della patria, ma se dovessi farlo solo per soddisfare un vostro capriccio, mi fermerei al primo passo». Nel congedarlo, Bonaparte ha mormorato: «Chi non crede alla mia fortuna è un cieco».
Dall’Egitto Napoleone torna in Francia per spiccare il volo verso il consolato e l’impero. Torna anche il generale suo rivale, ma la fortuna ormai ha già fatto le sue scelte. Fa naufragio sulle coste del regno di Napoli, viene imprigionato. Nel 1801, quando si ritrova libero, scopre di essere stato messo a riposo, esonerato dal grado, cancellato dall’elenco dei generali di divisione della Repubblica. È la morte militare, e in fondo civile, preludio, cinque anni dopo, di quella fisica.
Al culto paterno Dumas dedica parole toccanti: «Mio padre è morto in disgrazia presso l’imperatore: era uno di quegli uomini d’acciaio i quali credevano che l’anima e la coscienza sono la stessa cosa, ne seguono fedelmente i dettami e muoiono in miseria. Difatti è morto in miseria. La vedova aveva diritto a una pensione: non le è stata accordata. Perciò il sangue di mio padre, versato sotto la Repubblica, non è stato pagato né dall’Impero né dalla Restaurazione: ringrazio l’Impero e la Restaurazione, perché hanno fatto di me un uomo libero».
C’è dunque un Golia storico, Napoleone, a cui nel Cavaliere di Saint-Hermine Dumas oppone un David letterario, Hector, appunto, che è un po’ il vendicatore di quel padre sconfitto, ma non vinto, di quel figlio umiliato ma a suo modo superbo. Ma mentre nel Conte di Montecristo Edmond Dantès si vendicava procurando la rovina economica, il disonore e la morte ai propri persecutori, qui Dumas sceglie un’altra strada. Spogliato del nome e condannato all’esistenza di fantasma, Hector nel tempo dell’Impero si impone senza mai chiedere: costringe Napoleone ad ammettere che ha avuto torto, gli salva persino la vita, ma come potrebbe fare con un commilitone, un servitore, uno sconosciuto. Lo salva perché è un essere umano, non un semidio... Non avendo ambizioni, è incorruttibile, non avendo convinzioni, è inattaccabile: l’unica sua dedizione è verso la Francia di cui, ai suoi occhi, Napoleone è un semplice strumento, e non l’incarnazione, come questi si era illuso.
Proprio perché è il vendicatore dei Dumas, Hector riassume in sé il meglio degli eroi di carta creati dallo scrittore. Ha la forza di Porthos, l’eleganza di Aramis, la nobiltà d’animo di Athos, l’audacia di D’Artagnan, la tenacia di Dantès. È ufficiale e gentiluomo, uomo di spada e di penna, fedele a un unico, perduto amore, e però irresistibile agli occhi delle donne. Al termine della vita, Dumas ha ancora la forza e la presunzione di cercare di scrivere il romanzo di una vita. Se «la storia è un chiodo al quale appendo i miei libri», qui è un susseguirsi di chiodi appesi nel segno dell’eccesso.

C’è Giuseppina e c’è Fouchè, Talleyrand e Chateaubriand, il duca di Enghien e Fra Diavolo, il corsaro Sourcouf e l’ammiraglio Nelson, la terra e il mare, la Francia e l’Italia, la Birmania... Si comincia a leggere e non si smette più.

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