Le istruzioni sono queste: prendete l'orzo perlato, bollitelo in acqua, spremete il tutto e mischiate il liquido ottenuto con scorza di limone o col limone stesso, a piacere. Aggiungete zucchero secondo gusto e il gioco è fatto: otterrete Wimbledon.
Questa insomma è tradizione, come il fatto che - salvo eccezioni dovuto ad annate particolarmente piovose - la prima domenica del torneo sui campi dell'All England lawn Tennis e Croquet club si aggirino solo i giardinieri. Che diciamolo, però, non sono più quelli di una volta: il loro capo, Eddie Seaward, è sul banco degli imputati dei puristi, che trovano l'erba di oggi troppo diversa da quella di ieri. O - più semplicemente - troppo simile alla terra battuta. Per cui ecco perché Wimbledon vacilla e chissà che un giorno non si giochi regolarmente anche la prima domenica. Ma l'orzata no: come riporta il collega Federico Ferrero sul suo blog Wildcard, la «Barley Water» campeggia sotto il seggiolone degli arbitri fin dal 1961, cioè da quando è sponsor del torneo. E nessuno può scalzarala da lì, neppure il progresso. Anche perché, fin dal 1961, nessuno ha visto un tennista prenderne una sola bottiglia per bere l'orzata a un cambio di campo.
Insomma: il lunedì Wimbledon ricomincia con il trionfo degli ottavi di finale e in fondo tutto è quasi come deve essere. I favoriti ci sono, gli italiani no: secondo tradizione, insomma. Però, più di quelli che ci sono ancora, Wimbledon è la storia di quelli che non ci sono più, volti e vicende che entrano nel calderone del torneo dal primo giorno che alla fine della prima settimana vengono dimenticati. Ingiustamente. E non solo si parla di Nicolas Mahut, la faccia oscura del match che ha fatto leggenda: lui che è stato persino invitato - dopo il 68-70 al quinto con Isner (che ieri Sky ha replicato per le intere undici ore e cinque...)- a prendersi una vacanza dal Club Med, come premio per essere il perdente dell'umanità. Peccato che sul biglietto avessero sbagliato nome (Thomas), ma come dice Josè Mourinho, nessuno si ricorda chi ha perso il primo match mondiale di Mohammed Alì.
La vera storia del torneo invece, il vero Federer delle vicende umane, si chiama Dustin Brown, giamaicano di 25 anni e primo «rasta» della storia non solo a calcare i regali campi di Church Road, ma pure a vincere un set. Miracolo. Soprattutto perché il nostro personalissimo Federer - di mamma tedesca e papà giamaicano - ha costruito il suo futuro in un paesino dell'isola dove non esistevano campi da tennis. Semplicemente perché non esisteva neppure il paesino. Eppure: dopo un trasferimento a Montego Bay, l'avventura è cominciata sul serio, senza un maestro né un consiglio tecnico, tant'è vero che Dustin ha un gioco impossibile da definire. Gioca come gli viene, in pratica, eppure torneino dopo torneino a cominciato a costruirsi il gruzzolo per salire un gradino alla volta: papà e mamma hanno consumato i risparmi per comprargli un caravan, e allora via, sulle strade del mondo a inseguire palline. «In Giamaica nessuno si è mai interessato di me - ha raccontato Brown recentemente in un'intervista -, per questo ho rinunciato a giocare la coppa Davis e sono stato ripudiato dalla federazione. Fino a pochi mesi fa non si poteva neppure dare notizia dei miei risultati, adesso però la situazione è leggermente cambiata». Anche perché lui intanto, col suo camper con targa tedesca, è arrivato appunto fino alle Doherty Gates. E ci è pure entrato: «I primi tempi sono stati molto duri, non avevo sponsor, circoli per i quali giocare a squadre, i miei avevano esaurito le risorse per aiutarmi. Potevo permettermi un torneo solo se quanto guadagnato la settimana precedente mi permetteva di sostenere le spese. Però credevo in me, e così...». E così eccolo, già fuori da Wimbledon (battuto al primo turno al quarto set), ma moralmente trionfatore, perché in fondo la tradizione vuole che ce ne sia almeno uno.
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