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E Abu Mazen congela la pace con Israele

L’obiettivo della Casa Bianca: riunire l’Islam moderato contro le mire egemoniche di Iran e Siria. Ma si parte male

E Abu Mazen congela la pace con Israele

Qualcuno la chiama la «photo opportunity più cara del mondo»: centinaia di politici insieme a tutti i dignitari del caso, migliaia di giornalisti stanno avviandosi all’aeroporto diretti verso una graziosa cittadina del Maryland dove ha sede una grande sede navale, Annapolis, tre quarti d’ora di guida tranquilla da Washington. La definizione non è proprio quella che il presidente George W. Bush vorrebbe sentire: certo, egli desidererebbe che si parlasse della conferenza di Annapolis come di una magnifica opportunità storica per la pace. Ma lo scetticismo è il sentimento dominante anche se ieri finalmente la maggioranza dei Paesi arabi ha deciso di partecipare all’incontro con un impegno di alto livello, spedendo i loro ministri come apostoli dei colloqui di Olmert e Abu Mazen.
Ma gli eventi di questi anni hanno vaccinato l’opinione pubblica mondiale, nessuno in realtà sente il grande afflato che circondò l’incontro fra Ehud Barak e Arafat insieme a Clinton a Camp David, l’11 luglio del 2000. Che cosa realmente è cambiato dal fallimento di allora per farci credere che oggi le cose possano andare meglio? Ben poche: il bagaglio di delusione e di morte accumulatosi da allora sullo sfondo mondiale dello scenario della jihad islamica dilagante non aiutano a sperare, e il caso specifico israelo-palestinese è certo ancor più deteriorato di allora. I leader sono più deboli, il pubblico sfibrato.
Ma andiamo per ordine: l’evento di Annapolis in sé, per cui sono state messe in moto procedure di sicurezza quasi insopportabili, durerà soltanto la giornata di martedì. In quel giorno si cercherà di definire la cornice in cui, per volontà americana e con l’aiuto degli Stati arabi e europei, dovrebbe mettersi in moto una trattativa destinata a portare, riutilizzando il piano della Road Map, territori contro sicurezza, alla ancora più famosa soluzione di «due stati per due popoli». Ma prima dell’incontro l’intera giornata di domenica e di lunedì saranno dedicate a Washington a incontri, sorrisi, cene, in cui si dovrebbe propiziare la buona riuscita della Conferenza. E ce n’è bisogno perché in tutte le riunioni a Gerusalemme fra Olmert e Abu Mazen non si è mai arrivati a un comune documento, neppure di intenti, che faccia ben sperare sulla pragmaticità della Conferenza. Pur se Condi Rice seguita a richiederlo anche in queste ore.
Per capire perché il processo non ha funzionato e anche perché la Conferenza stia per avere luogo a dispetto dei santi nonostante solo ieri i ministri degli Esteri della Lega Araba dal Cairo abbiano alzato il pollice (l’Arabia saudita ha dato il suo sospirato assenso, la Siria invece ancora no) bisogna aver chiaro che nei fatti la Conferenza ha due scopi, di cui uno si realizza per lo stesso fatto di andare alla Conferenza, di poter scattare la foto di cui parlavamo all’inizio: una schiera di Stati arabi moderati insieme a Israele, che non riconoscono, e agli Stati Uniti, odiati dagli jihadisti. Infatti, se la realizzazione di un processo di pace israelo-palestinese è lo scopo dichiarato altamente simbolico che l’amministrazione Bush intende perseguire, l’altro scopo, quello non dichiarato, è forse ancora più importante: si tratta infatti di riunire tutti i rappresentanti dei Paesi arabi moderati in una coalizione appunto, moderata, che si contrapponga al disegno egemonico e aggressivo dell’Iran e dei suoi alleati, specie la Siria, che fomenta la guerra degli hezbollah e di Hamas, usa i suoi confini come un’affilata arma verso l’Irak introducendovi terroristi e armi, e verso il Libano per armare e finanziare gli hezbollah, e i vari gruppi terroristici di cui si serve per mantenere quel potere per cui in queste ore il Libano rischia di dover affrontare una nuova guerra civile.
Gli Usa cercano una via indolore per isolare l’Iran sulla strada dell’atomica e quindi si sforzano di mettere insieme il più grande numero di Paesi arabi che scelgano quella pace con l’Occidente che è guerra contro la jihad. E quale pace può essere più simbolica di quella sempre adorata, sempre perseguita senza successo fino all’ultima amministrazione Clinton, di quella israelo-palestinese? Ma l’attuale invece di essere migliorata, si è deteriorata a causa della crescita dell’estremismo jihadista, che può produrre, come ha minacciato anche giovedì Ismail Hanyeh, uno scontro post Conferenza in confronto al quale la vecchia Intifada del terrorismo post Camp David impallidirà.
Contro qualsiasi accordo di pace si frappone, di fatto, la scelta di Abu Mazen di andare alla riunione con posizioni che non scontentino un’opinione pubblica palestinese di cui più della metà crede che il territorio di Israele e della Palestina costituisca un’unica entità, appartenente di fatto, al mondo arabo e musulmano: Sa’eb Erakat, il portavoce storico e il negoziatore che fu anche di Arafat, ha sollevato chiaramente l’ostacolo principale nei giorni scorsi, quando ha detto che i palestinesi non riconosceranno mai Israele come Stato ebraico, e che sosterranno per sempre il diritto al ritorno dei profughi, ovvero dei figli dei figli dei loro figli che sono stati conservati in una specie di riserva, l’Unrwa, che ne ha fatto la massa di riserva di una guerra che, anche secondo Arafat, deve conquistare tutta la terra ai palestinesi. I confini, lo smantellamento degli avamposti, la liberazione dei prigionieri, la spartizione di Gerusalemme sono certo temi molto difficili, ma su questi è pur possibile il compromesso. Olmert non fa che ripeterlo. Quello su cui Bush e Condi dovranno misurare tutta la loro forza sarà una dichiarazione in cui si parli con chiarezza di due Stati per due popoli, una casa palestinese per i palestinesi, e una, Israele, per gli ebrei, non una religione ma una nazione.
Si capisce in queste ore che nel campo palestinese, vicino a Salam Fayyad che diventa sempre di più la figura di riferimento per chi vorrebbe muoversi dalle vecchie posizioni, si sta formando un raggruppamento di cui fa parte anche Yasser Abed Rabbo che si contrappone a quello di Abu Mazen, Abu Ala e Sa’eb Erakat.

Ma è difficile che riescano a farsi sentire nella confusione della folla.

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