Diranno che Francesco Saverio Borrelli, quando cè Wagner, va un po fuori di testa: ma non è vero. Ieri, prima di assistere al Tristano e Isotta, intervistato sullinchiesta Incarichi doro, ha risposto così: «Non entro nel merito, ma a volte per rendere efficiente la pubblica amministrazione bisogna forzare i limiti della legalità». Figurarsi se entrava nel merito: avrebbe rischiato, addentrandosi nella dicotomia tra mezzi e fini, cioè tra pubblica amministrazione e forzatura della legalità, di spiegarci la vera storia di Mani pulite.
Borrelli ha finalmente confessato? Dipende: è Wagner che fa implodere la dicotomia che lex alto magistrato ha dentro di sé. La tesi di laurea di Borrelli, mentre pure studiava musica, fu questa: «Sentimento e sentenza». Nel 1951 vinse una borsa di studio per Bayreuth, sacrario del mito wagneriano, e tornò ancor più dimezzato.
Poi risuonò il corno della rivoluzione, il Götterdämmerung della Prima Repubblica. Ma a noi Borrelli piace così, autentico, dionisiaco, wagneriano, che insomma ce la conta giusta.
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