E il caso Tibet scompare dalla Galleria

Chiuse le Olimpiadi, scompare il Tibet. Accade a Milano. La bandiera tibetana che il Comune aveva esposto in Galleria Vittorio Emanuele è stata ammainata. «Sono finite le Olimpiadi di Pechino» fa sapere Manfredi Palmeri, presidente del consiglio comunale che, naturalmente, rimarca come «l’impegno di Palazzo Marino» continui «perché i diritti umani e civili siano rispettati in ogni parte del mondo».
Nessun dubbio sul fatto che l’amministrazione comunale non spegnerà la luce sul Tibet e sulla Cina e su tutte quelle realtà dove «i diritti umani e civili» sono quotidianamente negati. Ma la bandiera del Tibet, quel vessillo che raffigura due leoni a reggere la ruota dello ying yang, avrebbe dovuto continuare a sventolare perché simbolo di pace e di libertà. Sì, poiché simbolo di una nazione occupata dalla Cina dal 1953, fare ancora sventolare la bandiera tibetana significherebbe continuare a sostenere concretamente la causa di un Tibet libero e non solo attraverso mozioni e interventi in consiglio comunale. Certo, sempre e comunque sarebbe un gesto simbolico ma, almeno per una volta, frutto di quella decisione unanime dell’aula consiliare che già decise di sostenere la battaglia del Tibet e, senza forse, dimostrando più coraggio della comunità internazionale.


Una bandiera innalzata, tra l’altro, rendendo compatibile la volontà del consiglio comunale con la legge italiana che prevede possano essere affisse sugli edifici pubblici solo le bandiere del Comune, della nostra nazione e dell’Unione europea o quelle di altri Stati solo in occasione di visite ufficiali delle autorità estere. Dunque, Manfredi, perché non far risventolare quel drappo tibetano in Galleria?

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