E Dario giurò: Costituzione da rifare

Poco più di un anno fa, al centro del ring di un talk show, Dario Franceschini mi ha – simpaticamente, lo giuro – tirato addosso una copia non della Costituzione ma della sua ultima fatica romanzesca, La follia improvvisa di Ignazio Rando, uscito per Bompiani. Doveva difendersi da una domanda: se lei non fosse Franceschini, avrebbe trovato comunque un editore così blasonato pronto a pubblicarlo? Risposta involontariamente marinettiana: il lancio del libro.
Oggi Franceschini, lo sappiamo, deve pararsi da altre accuse, la prima è quella di essere stato fino all’altrieri il vice di Walter Veltroni, il «vice-disastro» nelle concilianti parole del Matteo Renzi candidato piddino a Firenze, ovvero colui che ha accompagnato fedelmente Veltroni nella produzione del Pd, il Palinsesto Democratico, una fiction partita al Lingotto con i favori della critica e rivelatasi il set male allestito per una storia priva di mordente.
Franceschini ha subito mandato in soffitta l’intero repertorio del partito «a vocazione maggioritaria». Ha riconosciuto implicitamente, che se non s’inventa qualcosa, il centrosinistra è destinato a restare strutturalmente una minoranza elettorale nel Paese. Considerato che la fiction modernizzatrice ha totalizzato uno share non esaltante all’inizio, che diminuisce di puntata in puntata, ha deciso di rivoluzionare il palinsesto e cambiare format. Anzi, ha stabilito di riportarlo all’antico, al sapore tradizionale e rassicurante di una Repubblica dove comandavano democristiani e comunisti e in cui le culture politiche del centrodestra di oggi o non c’erano ancora o erano tenute alla larga dall’arco costituzionale.
Ha trovato confortevole ristoro in questa parte dell’immaginario politico, Franceschini, vicino a Peppone e Don Camillo, all’antifascismo e al conservatorismo istituzionale «che un tempo erano patrimonio di tutti e oggi pare non più», al remake degli amorosi casti sensi tra il cattolicesimo democratico e il postcomunismo che hanno segnato gli anni della sua giovinezza ferrarese, a non troppi chilometri di distanza dalla Brescello guareschiana.
E così, con una macchina da presa che filma in bianco e nero, ha cominciato a girare un bel documentario in stile Rai anni Cinquanta. Primo fermo immagine: il certificato di sana e robusta Costituzione, il giuramento sulla Carta con la mano poggiata alla spalla del padre partigiano. Mancava solo un’epigrafe di Calamandrei a suggellare solennemente l’atto fondante del ritorno all’antico. Veltroni, due settimane fa, aveva scelto Oscar Luigi Scalfaro come testimonial della manifestazione «Difendiamo la Costituzione», Franceschini ha direttamente preso il posto di Scalfaro sul palco per tuonare contro quest’Italia in cui «il potere viene sempre più tacitamente concentrato nelle mani di una sola persona».
Parole durissime, quasi dipietriste: la Costituzione non si tocca nemmeno con una carezza riformatrice. Ci potrebbe stare, con i sondaggi lacrime-e-sangue alla vigilia del test amministrative-europee di giugno, questa strategia di ri-involuzione a una fase addirittura precedente al prodismo, centrata sul disperato bisogno di chiudere i cancelli dell’ovile democrat prima che le pecore elettorali scappino altrove.
Ma, come al solito, c’è sempre un «ma». E un «mah». Il «ma» e il «mah» stanno in un’intervista su la Repubblica del 2 gennaio 2008. Governo Prodi in carica, dialogo sulla riforma elettorale fitto fitto. Sentite qui: «Il sistema istituzionale italiano è troppo lento, non funziona più», e allora bisogna pensare all’«elezione diretta del presidente. Io penso al presidente della Repubblica come in Francia, ma si può discutere anche a una riforma più simile al Sindaco d’Italia», cioè il premier. Insomma, un rafforzamento del ruolo di guida del Paese attraverso l’elezione diretta «mi sembra una cosa su cui dobbiamo avere la capacità di non rimanere legati agli atteggiamenti degli anni passati», poiché «la straordinaria condizione di democrazia» rappresentata dall’alternanza al governo «fa rivedere in una luce diversa molti anni di cultura costituzionale che fa parte della storia della Dc e anche della sinistra, cioè il timore dell’uomo troppo forte».


Ecco il «ma» (e poi il «mah»): chi è questo genuino spirito riformatore e presidenzialista che non ha paura di affrontare le tare del conservatorismo costituzionale democristiano e postcomunista e rigetta l’antica paura, plasticamente incarnata dal discorso di Dario Franceschini dell’altrieri, del potere «concentrato nelle mani di una sola persona»? È Dario Franceschini, evidentemente un clone difettoso del Franceschini Dario odierno, uno scherzo onomastico, un errore di persona. Può darsi che, dichiarando l’azzeramento dei vertici del Pd, Franceschini abbia azzerato anche la memoria. Mah.

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