Politica

E Fini resta ancora senza cittadinanza

Nel giorno in cui Silvio Berlusconi spiega che la diversità di opinioni è una ricchezza del Pdl, Gianfranco Fini si scopre clandestino del suo popolo e chiede cittadinanza al partito che non c’è. Davvero un curioso scherzo del destino nel corto circuito che si è creato tra la nuova battaglia campale del presidente della Camera e la sua nuova identità. Tra il suo passato e il suo futuro. È cresciuto come un esule in patria, secondo la definizione che Marco Tarchi dava dei neo fascisti italiani negli anni ’60, e si trova ora come un esule nel suo stesso partito, interrotto a gran voce da una militante di An che alla festa del Pdl a Milano è sbottata e l’ha ripreso durante il suo discorso.
Gianfranco Fini ha fatto degli extracomunitari e della loro cittadinanza qualcosa di più di un feticcio, una meravigliosa ossessione letteraria, qualcosa che ricorda il doblone d’oro piantato sul pennone dal capitano Achab, per simboleggiare la sua caccia estenuante a Moby Dick.
Mentre la sinistra continua nella sua revisione dei pregiudizi, mentre i riformisti cercano faticosamente di archiviare il terzomondismo e di cimentarsi con la dura realtà dei flussi della politica di integrazione, dei costi che vanno sostenuti per mantenere la pace sociale, il Gianfranco Fini che accendeva la Fiamma a Le Pen, solo un paio di decenni fa, adesso parla degli stranieri come fosse un predicatore evangelico, inventa un nuovo codice di cittadinanza che non è più fondato sulle leggi ma sui sentimenti: «È italiano chi ama l’Italia».
Siccome tutto si può dire dell’ex leader di An tranne che politicamente sia uno sprovveduto non si può non domandarsi dove voglia andare a sbarcare. E perché abbia trasformato un punto di programma in un simbolo. Perché sia passato dalla rassicurazione dei militanti all’abbraccio delle donne velate, alla celebrazione delle coppie gay nella Sala della Lupa, patrocinio di tutte le diversità, di tutte le eresie: lo «famo strano» perché comunque fa chic.
Siccome Fini non è un kamikaze bisogna convenire con Shakespeare che c’è del metodo nella sua follia e una precisa analisi di fondo: il Pdl gli è estraneo, spesso ostile, un partito che lo rende non integrato e non assimilabile.
Così Fini, che è abituato a essere primo ovunque fin da quando era delfino di Giorgio Almirante, coccolato da donna Assunta, tramuta in un transfert psicologico la sua battaglia politica e gioca l’unica carta che gli è rimasta: la scommessa sul futuro come negazione del presente, l’utopia dell’antiberlusconismo per resistere alla forza del berlusconismo reale. Non potendo competere con il Cavaliere, cerca di superarlo almeno sul piano estetico, cerca il consenso dei grandi media e della buona borghesia progressista che al premier è precluso. Non potendo essere Berlusconi, cerca di avere almeno un futuro.
Il presidente della Camera sogna il Quirinale, si arrocca nella torre d’avorio della sua diversità, flirta con le classi dirigenti progressiste e anziché ritrovarsi, si smarrisce, invece di preparare la successione sta preparando le condizioni per essere ripudiato dai suoi stessi militanti che non lo capiscono più.
Gianfranco Fini sogna e immagina di essere un leader fondatore, un nuovo Eisenhower, un emulo di Aznar, di cui è un ottimo amico e di cui frequenta assiduamente la sede della sua fondazione a Madrid. Ma rispetto a questi modelli, vecchi e nuovi, è privo di una caratteristica indispensabile, il radicamento in una comunità: potrà forse scrivere una pagina grande, ma sarà comunque una pagina di sconfitta.


In questa parabola politica, che comincia ad assumere i colori del paradosso, Gianfranco Fini ancora una volta esule in patria, extracomunitario nel suo partito, corre un rischio enorme: quando mai dovesse avvicinarsi alla balena bianca, il percorso che sta facendo lo avrà così trasfigurato che non riuscirà nemmeno a scagliare l’arpione.

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