E Gianfranco nega in pubblico quello che sostiene in privato

RomaAmicum secreto admone, palam lauda. «Ammonisci (avverti, critica) in segreto l’amico, lodalo pubblicamente». La massima latina è adattabile al presidente della Camera, Gianfranco Fini, con una piccola variante: in pubblico l’«amico» Berlusconi non viene lodato. Tutt’al più, come è accaduto ieri, si affida al portavoce di Montecitorio la diffusione di un comunicato con cui si smentisce ciò che segretamente a Montecitorio si affermerebbe.
«Le parole attribuite da il Giornale al presidente Fini non sono mai state pronunciate e non corrispondono al suo pensiero» si legge nella nota. Ma che cosa non avrebbe detto il presidente? Uno. «Berlusconi è morto. Mor-to. Lo capite? A maggio non sarà questo l’assetto politico». Due. «Non si può più andare avanti e non si può considerare Camera e Senato come l’appendice del governo». Tre. «Se si arriva al voto, vedrete quanti ci seguiranno». Quattro. «Silvio ha alzato la voce, ma non mi fa certo paura... Non sono mica uno Schifani o un Gasparri». Cinque. Se la legislatura dovesse finire in anticipo, farà «una campagna per dire chi è veramente Berlusconi».
Ecco, la differenza è tutta qui: tra ciò che è pubblico e ciò che è «segreto» e che il Giornale ha cercato di documentare. Perché un fatto è chiaro: a Gianfranco Fini non è affatto piaciuto che nell’ufficio di presidenza di giovedì scorso Silvio Berlusconi abbia esplicitato che «tutti devono uniformarsi alle decisioni del Pdl e chi non vuole può andarsene». Un messaggio tanto semplice quanto imperativo, rivolto proprio a Fini che con le sue intemerate su immigrati, riforme e rispetto per la magistratura (inclusa quella che sta assediando Palazzo Chigi) sta creando molte difficoltà al presidente del Consiglio.
E un altro fatto è che a Fini e ai «finiani» non garbi per nulla la comprensione berlusconiana nei confronti della «paradossale» vicenda del sottosegretario Nicola Cosentino. Al punto che nella riunione dei parlamentari campani di domani a Napoli per affrontare il tema candidature non si escludono colpi di scena.
Analogamente, un altro fatto è che Gianfranco Fini, co-fondatore del Pdl, il resto del partito e il principale alleato di governo (la Lega Nord) parlino pubblicamente lingue diverse. Ieri a Cadenabbia, in provincia di Como, concionando in un convegno promosso dalla «sua» FareFuturo, il presidente della Camera è tornato a sfidare Berlusconi sul tema della cittadinanza agli immigrati. «Le riforme - ha detto - vanno viste come un fattore di rilancio della coesione morale e sociale». Occorre perciò «rinnovare il patto» e «vincere la sfida dell’integrazione attraverso un programma di estensione della cittadinanza sociale e politica».
Di sicuro non sono filogovernative le annotazioni sul «rinnovamento dei partiti», sul «rischio del populismo» e sul «divario tra élites e popoli». Chiose quasi montezemoliane ma che stonano un po’ se pronunciate da una delle massime cariche dello Stato.
A queste cannonate al governo e alla politica ha risposto direttamente il leader della Lega Umberto Bossi, per ricordare che quelle idee «sono state bocciate dal suo partito» e che chi fa saltare il governo «non piglia più voti».

Se ciò che Fini ha voluto pubblicamente smentire fosse totalmente infondato, non sarebbero state necessarie né queste nuove sortite né tantomeno l’altolà bossiano. E soprattutto il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri (ex An pure lui) non avrebbe auspicato che «la bugia attribuita a Fini induca tutti a un maggiore buon senso».

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