E dopo i furbetti del quartierino, quello «del deserto»

Caro Granzotto, cito dal libro Nel segno del Cavaliere di Bruno Vespa, da pagina 330: «A una cena in un locale di Trastevere (nel 2005) Alemanno e Storace chiesero a La Russa e Gasparri, leader della corrente maggioritaria di AN, di mettere in minoranza Fini. Fra i presenti Italo Bocchino e Carmelo Briguglio si dissero d’accordo, Gasparri fu un po’ più prudente, La Russa bocciò la proposta». Non Le sembra che qualcosa non quadri? A pagina 331 e seguenti, si legge che Matteoli, La Russa e Gasparri, seduti a un tavolo di un bar di Roma, confabulavano sulla «salute» di Fini. Come reagì l’uomo della che rivendica per sé il diritto di critica e di dissenso (da Berlusconi) quando lo seppe? Così: «dimissionò i vicepresidenti, revocò a La Russa l’incarico di coordinatore del partito (di fatto il numero 2) e si prese le sue vendette anche a livello locale...». Vendette? Chi, Fini? Non mi pare che qualcuno abbia querelato Vespa per aver riportato notizie infondate, o di aver calunniato il presidente della Camera. I suoi caporali di giornata Bocchino e Briguglio volevano metterlo fuori gioco e dove li troviamo oggi? Sdraiati ai piedi del ducetto di Mirabello, fervidi sostenitori della sua battaglia contro il partito che dice di aver fondato con Berlusconi, contro i suoi ex sostenitori, contro il governo, contro il Pdl che «non esiste più», ma col quale vuol continuare a governare per non scollarsi dalla sedia prestigiosa che gli procura onori e denari. Se, vedendo in tv Fini o Bocchino o Briguglio mi vengono... cognati di vomito, lei pensa che io sia pieno di preconcetti, non essendo un esponente della sinistra illuminata e progressista?
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Certo che no, caro Solazzi. Il preconcetto implica idee o opinioni non obiettive, non serene, concepite per partito preso. Elaborandolo da fatti (mai smentiti), il suo è dunque un concetto, senza il «pre». Curioso, però: il personaggio Fini emerge, in tutta la sua dimensione politica, da due conversazioni conviviali. In entrambe, lo stato maggiore di An - assieme a un paio di marmittoni diventati in seguito marescialli d’Italia - giudicano Gianfranco Fini una scamorza di leader. Nel secondo colloquio mettono addirittura in dubbio il suo stato psicofisico: «È malato, non lo vedete che è dimagrito, gli tremano le mani. Non so di che tipo di malattia si tratti, ma o guarisce o sono guai. Dobbiamo andare e dirgli: “Gianfranco, svegliati!”. Che ne so, se serve, prendiamolo a schiaffi, ma scuotiamolo!». Come reagì il «ducetto di Mirabello» è storia nota: liquidando l’opposizione (nel linguaggio fascista, «cambio della guardia» o «repulisti»; in quello bolscevico, «purga») salvando però la testa a quel paio di scartine, due di coppe, per farsene dei riconoscenti, dei devoti trombettieri. E lo chiama «FareFuturo». Boh. Quanto alla dimensione personale, un bel ritratto di Fini emerge invece da come liquidò la faccenda dell’appartamento monegasco occupato dal cognatino e cioè dicendosi «stupito e irritato» (traduzione: non ne sapevo niente). Un comportamento sì da «furbén dal desert». Essendo di Bologna, l’interessato conosce assai bene l’espressione che forse a lei, caro Solazzi, suonerà oscura. Le dirò allora che i modi di dire bolognesi, chessò, «Turco di ritorno» o «Dì ban so fantesma», hanno tutti una bella storia alle spalle. Quella relativa a «furbén dal desert», furbetto del deserto, è questa: un tipo aveva fatto un prestito a un amico il quale, da quel momento, si rese irreperibile per non sentirsi sollecitato a onorare il debito. Fuggi di qui, fuggi di là, un bel giorno i due si ritrovarono - soli soletti - nel mezzo di un deserto. Vedendo di lontano il debitore, il creditore si affrettò gridando: «Dì sò, te!», (Ehi! Senti, tu!).

E quello, sgranando gli occhi: «Chi? Me?», cioè: «Chi? Io?». In lingua, il «furbén dal desert» è dunque chi usa fare lo gnorri, il nesci. Chi crede di cavarsela, insomma, facendo il finto tonto. Modo di agire che funziona, chi dice no, ma solo fra tonti.

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