E i Pm flop accusano le Fiamme gialle

Milano«Questa è un’indagine molto seria». Solo pochi giorni fa, il procuratore di Napoli Giovandomenico Lepore aveva scelto le telecamere per difendere la sua inchiesta. Che la P4 mica è gossip. Anche se qualcuno il dubbio l’ha avuto. E forse nemmeno il gip era troppo convinto della bontà dell’indagine, visto che di tutti i reati contestati dai pm alla «banda-Bisignani» - concussione, corruzione, associazione per delinquere finalizzata alla costituzione di una loggia massonica, favoreggiamento e violazione del segreto istruttorio - sono rimasti in piedi gli ultimi due. Non un dettaglio da poco, se c’è un reato associativo quando si ipotizza l’esistenza di una «setta» di mestatori. Ma insomma, la Procura ha già fatto ricorso al Riesame contro la decisione del giudice. E parallelamente - ha raccontato ieri il Fatto quotidiano - è andata a caccia delle «talpe».
Sotto inchiesta per favoreggiamento e rivelazione del segreto finisce il comandante Vito Bardi, generale della Gdf per l’Italia meridionale. Ma la novità è l’iscrizione del generale Michele Adinolfi, capo di stato maggiore della Finanza, che a Bisignani avrebbe «soffiato» i contenuti del fascicolo attraverso Giuseppe Marra, presidente del Cda dell’agenzia AdnKronos. I pm Woodcock e Curcio non l’hanno presa bene, la fuga di notizie. Perché di colpo gli indagati hanno smesso di parlare liberamente al telefono, e cominciato a depistare. Insomma, l’inchiesta sarebbe stata bruciata sul nascere. Ma è possibile che l’eventuale flop dell’indagine dipenda dalla presunta infedeltà di qualche servitore dello Stato? Se si incrocia qualche data, questa appare più come una caccia al capro espiatorio.
Perché se la rivelazione del segreto c’è stata, lo stabiliranno i giudici. Ma stando alle carte, la storia è un po’ diversa. I pm ricostruiscono così la vicenda: Bisignani, al telefono, è un fiume in piena. Una fonte continua di rivelazioni. Attraverso un sofisticato sistema informatico i magistrati erano riusciti a utilizzare il computer del faccendiere come un registratore in costante presa diretta sulle sue conversazioni. Poi succede qualcosa. Alla fine del 2010, i personaggi coinvolti nell’indagine smettono di comunicare in libertà. Si fanno più attenti. Il fiume di informazioni si prosciuga, e con questo l’inchiesta. Diventa difficile, per i pm, ricostruire il perimetro dell’associazione a delinquere. Ma c’è un però, ed è nei numeri.
Il primo: 39306/07. È il numero del fascicolo che col tempo finirà per inquadrare la P4. «07» significa che è dal 2007 - cioè da quattro anni - che la Procura di Napoli scava nel mondo dei rapporti fra affaristi, faccendieri e politica. Il nome di Bisignani arriverà solo dopo, è vero. All’inizio del 2010, mentre i magistrati partenopei lavorano a presunte pressioni nelle nomine di alcuni manager di Trenitalia. A marzo risale la sua iscrizione nel registro degli indagati. Possibile, quindi, che sette-otto mesi di inchiesta siano andati in fumo per colpa di una «soffiata» fatta alla fine dell’anno? Altri numeri. Sono quelli contenuti nelle richieste per le intercettazioni allegate agli atti depositati. Le prime risalgono a febbraio. Il 22 inizia ad essere ascoltata Rita Monteverde, l’assistente di Bisignani. Di lì in poi, sarà un profluvio di telefonate, brogliacci e conversazioni registrate. Le intercettazioni sono migliaia.

Eppure, per il gip manca la prova che inchioda il grande manovratore e i suoi burattini. La prova che dimostri l’esistenza dell’«associazione». Un generale della Guardia di finanza ha di colpo rovinato tutto? Si vedrà. È che forse, prima, dev’esserci qualcosa da rovinare.

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