Obama rientra a Washington con tre spiacevoli no alle sue richieste: dellEuropa all'invio di soldati in Afghanistan e allaumento degli investimenti diretti per tamponare la crisi, e della Francia all'entrata della Turchia nella Ue. Ora deve incassare il no della Cina e della Russia alla mozione americana allOnu contro il missile nordcoreano. Il Medio Oriente resta il solo campo privilegiato di azione di Washington con due problemi: l'Iran, che preoccupa in primo luogo i Paesi arabi sunniti, e la Palestina. Sull'Iran la strategia di apertura di Obama elimina per il momento ogni tipo di pressione, economica o militare. Sul conflitto palestinese forti restano a Washington le speranze di ottenere successi capaci di ridare prestigio e autorità agli Stati Uniti. Lo conferma l'impegno preso da Obama ad Ankara di creare due Stati in Palestina e far onorare gli accordi di Annapolis (che il ministro degli Esteri israeliano Lieberman dichiara non vincolanti).
Tutto questo risveglia a Gerusalemme e nel mondo ebraico antiche paure di un «pagamento con denaro israeliano» della politica americana verso l'islam. Sono per il momento paure esagerate e lo dimostra l'apprezzamento di Netanyahu al discorso di Obama in Turchia. Israele ha infatti bisogno di tempo per cambiare i suoi parametri di politica estera: deve infatti capire come finirà a Washington la lotta fra coloro che ritengono che Israele sia un peso troppo grave per gli Stati Uniti e coloro che pensano, al contrario, che Israele con tutti i suoi difetti sia l'unico alleato fidato dell'America nel Medio Oriente che non si deve indebolire. A questo scontro dietro le quinte ha dato voce il capo di Stato Maggiore americano uscente, ammiraglio Mike Mullen, quando in un commento del Wall Street Journal ricorda esserci ora a Gerusalemme un governo che «non tollererà un Iran nucleare»; che, secondo Netanyahu, Israele ha i mezzi per «causare danno significativo» alle installazioni iraniane e infine che l'Iran è «sulla strada di creare l'arma atomica» ponendo l'America davanti a «un serio problema».
Dove questo porterà nessuno può al momento prevedere. Ma se la storia può essere di aiuto occorre ricordare che, pur non avendo tradizionalmente capacità di prendere iniziative proprie in politica estera ma solo di rispondere, più o meno bene, a minacce esterne, la diplomazia sionista, prima, e israeliana poi, è sempre stata capace di «aprire finestre quando la porta principale si chiude».
A sostituzione dell'appoggio imperiale tedesco al sionismo venne sfruttato nel 1917 quello britannico. All'abbandono da parte inglese del «focolare nazionale ebraico» nel 1948 fu trovato l'appoggio della Francia. Il rapporto con Parigi, rotto nel 1967, fu rimpiazzato dall'appoggio Usa. Se questa grande porta di aiuto dovesse chiudersi o socchiudersi, la struttura del nuovo governo israeliano (con un ebreo russo ammiratore di Putin come Lieberman alla guida del ministero degli Esteri) sembra attrezzata per allargare la finestra che già esiste verso Mosca. Equilibrare cioè all'Est il vuoto di potenza amica che potrebbe crearsi a Ovest. In questo caso la possibilità di infliggere all'Iran «danni significativi» alle sue strutture nucleari causando, come dice l'ammiraglio Mullen, «conseguenze intenzionali o non intenzionali risentite in lungo e largo», diventa un'opzione per Israele. Non è una opzione semplice ma è rinforzata dai precedenti storici e dall'impotenza altrui di controllare una volta di più la megalomania dei tiranni.
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