E José Saramago denunciò la Morte

Nell’opera narrativa di José Saramago la metafora e l’allegoria costituiscono una grande risorsa stilistica in grado di trasformare ed elevare la denuncia sociale e politica in simboli universali. Ricordiamo i temi della peste, della cecità, della caverna del mito platonico, della confusa enciclopedia dei nomi, infine dell’uomo duplicato dei precedenti racconti: moderne parabole surreali che scandiscono con feroce ironia una visione del mondo segnata dalla violenza e dall’ingiustizia. L’ultima prova, il romanzo Le intermittenze della morte (Einaudi, pagg. 204, euro 17; trad. di Rita Desti), non si discosta dalla linea precedente di accusa nei confronti delle grandi istituzioni religiose e politiche che detengono il potere e regolano le sorti degli uomini. Analoga è la fitta rete del discorso dialogico o monologante che s’intreccia e si sovrappone, solo rivelato dall’uso delle maiuscole, in una prosa lenta ed espansa che copre ogni interstizio possibile di spazio e tempo, e traduce il fluire labirintico del pensiero che va e viene senza sosta. Nel nuovo racconto la ricerca tematica di Saramago giunge al paradosso estremo di coinvolgere la stessa presenza della morte, che improvvisamente sospende la sua attività: «Il giorno seguente - così inizia e finisce il libro - non morì nessuno». Gli abitanti dell’anonimo paese prefigurato dal romanzo smettono infatti di morire, sebbene i malati prossimi alla fine non mutino il loro grave stato di salute. L’assurda situazione mette in moto una grottesca catena di reazioni, che vanno dall’ingorgo dei malati nelle sale degli ospedali e degli ospizi, alla minaccia di esaurimento delle casse delle pensioni, alle preoccupazioni di alcune categorie di lavoro e professioni (come le agenzie di pompe funebri), fino a giungere alle vibrate proteste delle gerarchie religiose, in particolare della Chiesa cattolica che vede nell’immortalità del corpo una fragrante contraddizione alla sua visione dell’aldilà: «Senza morte non c’è resurrezione - obietta sua Eminenza il cardinale dinanzi al Primo ministro - e senza resurrezione non c’è Chiesa». Il malessere è tale che l’alto prelato, colto da un attacco di appendicite, è ricoverato d’urgenza all’ospedale ma sa bene che è impossibile morire, pertanto implora il Signore che ciò avvenga e si riaffermi così l’ordine naturale infranto. In cambio, nel paese vicino, la morte continua imperterrita il suo triste rito, provocando alla frontiera un intenso traffico di malati e cadaveri organizzato dalla mafia. Nella seconda parte del libro il ritmo paludato del discorso cede e irrompe nella scrittura un andamento rapido e drammatico che restringe l’azione a due figure emblematiche principali: la morte, tornata alla ribalta con un bagaglio di missive color viola, che invia agli uomini per annunciare il loro prossimo decesso, e un cinquantenne violoncellista che vive solo col suo cane e caparbiamente respinge ogni consegna della lettera, messaggera della sua prossima fine. Il dialogo dei due protagonisti è intenso e diretto, con varianti e sdoppiamenti (il musicista e il cane, la morte e la falce) dove, come nel caso del cane - animale molto amato da Saramago -, possiamo cogliere alcuni riflessi della biografia dell’autore. Anche nel personaggio del musicista solitario, che resiste imperturbato alla chiamata della morte, siamo tentati di vedere il segno della salvezza rappresentato dalla creazione. Ma è solo una suggestione, avvalorata dall’immagine indulgente della morte che, nel capitolo finale, si fa donna per sedurlo e vivere con lui una notte d’amore. Eros comunque non vince su Thanatos; contro quest’ultimo non possiamo nulla, ha dichiarato Saramago recentemente.

La breve ingannevole parentesi dell’immortalità, contemplata dalla favola dell’ottantatreenne scrittore portoghese, più che un ghigno sarcastico verso le certezze positive della fede e della metafisica pone domande inquietanti che indagano sul mistero del nostro essere: il destino dell’uomo, la vecchiaia e la morte.

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