E l’asse D’Alema-Rossi fa saltare la «banca d’affari» di Palazzo Chigi

Il naufragio del piano «statalista» del premier ha riaperto la partita economica

Marcello Zacché

da Milano

Lavori in corso nella merchant bank di Palazzo Chigi. L’unica dove non si parla l’inglese. Il ritorno della sinistra al governo ripropone il film delle privatizzazioni di fine anni ’90. Ma la metamorfosi è evidente ed è stato il caso Telecom a farla emergere. Correva l’anno ’99 quando fu proprio Guido Rossi a coniare l’immagine della banca d’affari governativa: si riferiva alla benedizione con la quale l’allora premier Massimo D’Alema aveva dato l’ok alla scalata Telecom da parte di Colaninno, della razza padana di Gnutti, con la partecipazione delle coop rosse tramite l’Unipol di Giovanni Consorte e di Mps, la banca del Comune (Ds) di Siena.
Allora Rossi non condivise l’operazione soprattutto perché ancora gli bruciava il non essere riuscito a liberalizzare Telecom come avrebbe voluto, a spezzare la rendita da monopolio, dopo che l’aveva guidata fino a due anni prima. Quella merchant bank svelò però al Paese una nuova possibilità per il capitalismo nazionale: per la prima volta nasceva, ancorché sotto l’ala della sinistra riformista, un’alternativa al sistema Mediobanca-grandi famiglie, ormai arrivato a esaurimento. I capitalisti senza capitale lasciavano spazio a nuovi attori.
Ora, in questa estate 2006, Prodi era entrato a Palazzo Chigi per riaprire quella merchant bank per la consuetudine a mescolare politica e affari. Ma anche per trasformarla subito in un’altra cosa: il nuovo Iri. Una prospettiva completamente diversa da quella di D’Alema-Colaninno. Nessuna protezione, nessuno stimolo verso soggetti imprenditoriali. Bensì spazio aperto a un modello di statalismo «solidaristico» (perché di ispirazione cattolica) dove il capitale ce lo mette di nuovo lo Stato, prendendosi in cambio il diritto di gestire e indirizzare la politica economica, industriale e persino i media del Paese. Di fatto si socializza il capitale, privatizzando il potere ad uso del principe.
Il gioco si basa, come ormai noto, sul rafforzamento della Cdp (Cassa Depositi e Prestiti) e su un modello in cui accanto a questo nuovo Iri (controllato al 70% dal Tesoro, al 30% dalle Fondazioni, e che già detiene il controllo della Rete elettrica Terna) sia ipotizzabile il coivolgimento di altri soggetti: dalle stesse Fondazioni, alle grandi banche. Quali la neonata Sanpaolo-Intesa: vuoi perché è stata voluta e sarà guidata da Giovanni Bazoli, la maggiore personalità vivente di «finanziere cattolico», vuoi perché è nel Dna di Intesa la vocazione a «contribuire in modo efficace ed efficiente allo sviluppo del Paese, rafforzando il partenariato pubblico-privato», come recita la missione di Banca Intesa Infrastrutture e Sviluppo, struttura finanziaria controllata da Intesa, neocostituita ad hoc. Non a caso il laboratorio che fa da riferimento al prodismo statalista può essere quello che la Provincia di Milano a maggioranza ulivista, in tandem con Intesa nel ruolo di finanziatore, ha utilizzato per mettere le mani, guarda caso, su un’altra infrastruttura: la Milano-Serravalle. E non a caso il riassetto di Autostrade, che i Benetton hanno studiato non con Prodi, ma con gli spagnoli di Abertis, è stato bloccato dal governo.
Marco Tronchetti Provera non c’è stato a cedere la sua infrastruttura alla Cdp, come prevedeva il consulente di Prodi, Angelo Rovati. E ha chiamato Rossi. Quello della merchant bank di Palazzo Chigi, che nel frattempo però ha fatto pace con D’Alema.

Al quale il nuovo Iri di Prodi-Bazoli non andava per niente giù. E che ora ha la possibilità, fino a qualche giorno fa insperata, di riaprire anche la partita dell’indirizzo strategico della politica industriale. Giocandosi con Prodi la famosa merchant bank.

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