Cultura e Spettacoli

E l’eccellenza dell’Italia salì a bordo

Un cavatappi, con il manico di legno tarlato dalla salsedine dell’oceano; un dollaro americano, datato 1912. Sono la sintesi, le due sole reliquie sacrificali ancora esistenti di una piccola Italia che viaggiava a bordo del Titanic. Le ho toccate. Vibravano. Mi hanno parlato. «Uomo del 2012» mi hanno detto nel linguaggio delle cose «veniamo da 41º43’ di latitudine nord, 49º56’ di longitudine ovest, 375 miglia da Terranova, in pieno Atlantico. Veniamo da un secolo fa. La vuoi sentire la nostra storia?». Potevo non obbedire? Il risultato è in un programma che andrà in onda domani alle 23 su History (canale 407 Sky). Ho curato il soggetto del documentario, Gli italiani sul Titanic, prodotto da Cinehollywood di Milano per Fox International Channels Italy.
Il dollaro apparteneva a Luigi Gatti, 37 anni, a cui la White Star Line, armatrice del Titanic, aveva affidato la gestione del Ristorante à la Carte, il più lussuoso della nave. Il cavatappi giaceva nella tasca di un cameriere sul libro paga di Gatti, Emilio Poggi, 26 anni, da Calice Ligure, Savona. I due corpi, raccolti settimane dopo nel carname galleggiante del naufragio, riposano sotto cippi di pietra squadrata nel cimitero di Halifax, Nuova Scozia. I loro effetti furono rispediti alle famiglie. Sono i testimonial di un pezzo d’Italia, sfortunato e splendido. Erano una trentina i lavoranti di sala italiani dello staff di Gatti, i migliori al mondo. Età media sui 24 anni. Si andava dai 17 di Donati Italo Francesco, da Cortemaggiore, Cremona, ai 42 del veterano Pierre Bochet, di Saint Pierre, Aosta. Tutti scomparsi nella voragine. Erano sul Titanic perché erano l’eccellenza. Il principale li pretendeva impeccabili. Facce rasate, sorridenti. Gilet immacolati. Avrebbero servito magnati e aristocratici, gli Astor, marito e moglie, signori del calibro di Benjamin Guggenheim, gli Strauss, marito e moglie, proprietari dei magazzini Macy’s di New York, Margaret Brown, miliardaria di Denver, attori di grido e scrittori alla moda, da Southampton a New York, in una crociera inaugurale destinata a fare epoca.
Ugo Banfi, 24 anni, si destreggiava in sette lingue. Un dato strabiliante, per l’Italia di oggi, in cui la scuola stenta a impartire i rudimenti della seconda lingua. Banfi veniva da Caravaggio, Bergamo, che con il suo santuario mariano calamitava pellegrini da tutta Europa. I devoti vi arrivavano alla sera, assistevano ai riti, ripartivano il mattino seguente, dopo la prima Messa e la Comunione. Pernottavano negli alberghi locali, dove i camerieri li facevano sentire a loro agio, scambiando parole nei vari idiomi. Ugo era il migliore. Salì sul Titanic, arruolato da Gatti, lasciando sul molo, a Southampton, il fratello Innocente, che di lingue ne parlava quattro. Troppo poche, per l’esigente selezione della White Star.
Vincenzo Pio Gilardino, trentenne di Canelli, Asti, aveva dovuto sacrificare i baffi a manubrio: gli armatori britannici imponevano visi glabri, per igiene e uniformità di stile internazionale. Quei mustacchi facevano troppo «Italia». Ma non importava, la professione sul Titanic valeva questo e altro. L’Italietta giolittiana, che in quell’anno coltivava sogni imperiali con la presa della Libia, stava mandando sull’oceano un frammento di sé, ardito, speranzoso, competente, che sapeva le lingue e le buone maniere, che serviva nel lusso, ma primeggiava nella dignità del lavoro. Un fiore all’occhiello che si è disfatto nel gelo brutale dell’oceano.

Teniamo accesa la sua memoria, come è giusto, com’è sacrosanto.

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