A rte. Moda. Musica. Religione. Design. Persino storia. Il comune denominatore? Un colore: l'arancione. Saranno i tempi duri che portano la voglia di ritrovare un po' di ottimismo, sarà che le mode vanno e vengono. Sta di fatto che il mondo sembra non poter più fare a meno dell'arancione. Dai conti correnti che si fanno pubblicità con l'immagine di una zucca, alla rivoluzione che parte dal basso e sovverte un regime, passando per sculture che stravolgono e sorprendono. Tutto rigorosamente sotto il segno dell'arancione. Roba quasi da non credere se si considera che fino al 1750 questo colore non aveva nemmeno un nome «ufficiale». Già, perché la parola «arancione» deriva dal quasi omonimo frutto, che giunse dall'Arabia in Europa intorno all'anno 1000. Naranj, un termine pressoché impronunciabile per gli occidentali che coniarono un termine più fruibile, primi tra tutti gli inglesi che battezzarono l'agrume «figlio del sole» con il nome orange. Un colore ibrido, a pensarci bene: arancione che non è giallo, ma non è neppure rosso.
Ma perché tutti oggi vedono arancione? I motivi sono molteplici. Gli psicologi spiegano che l'arancione è un colore vivace, espansivo, spiritoso e estroverso. Trasmette allegria, insomma. In più pare che chi manifesta preferenze per l'arancione sia dotato di spiccata dinamicità e creatività. Ottime considerazioni, non c'è che dire. Ma come può un colore diventare una sorta di modus vivendi?
Se oggi si assiste a una vera e propria aranciomania, in passato questa calda e divertente tinta non ha sempre goduto di elevata considerazione. Anzi. La storia delle simbologie legate al colore arancione non è delle più esaltanti: il riferimento più immediato è sempre stato quello alla sensualità più volgare, dall'età classica fino all'Inghilterra medioevale per arrivare alla Francia, dove nacque l'usanza dei «fiori d'arancio» come simbolo di fertilità. Una concezione legata alla prosperità che rimanda alla solarità del colore, alla sua associazione con il sole, il padre della vita.
Proprio da questo legame con la natura provengono i primi «attestati di fiducia» che la storia ha tributato alla nuance: i monaci buddisti vestono di arancione, così pure il Dalai Lama; per non parlare degli Hare Krishna, che scelsero l'arancio come divisa per distaccarsi completamente da ogni convenzione.
C'è anche chi alza la voce e inveisce: Michel Pastoureau, considerato uno dei maggiori esperti mondiali di storia del colore e di simbologia occidentale, considera l'arancione «un colore volgare», disprezzandolo e definendolo una «nuance da zainetto» destinata a fare poca strada. Sarà. Sta di fatto che dappertutto, negli spot pubblicitari come sulle passerelle, dalla musica ai saloni del mobile, l'arancione la fa da padrone.
Prendiamo come esempio un'icona della musica rock contemporanea: Vasco Rossi. Neodottore in Scienze della Comunicazione, Vasco compare sulla copertina del suo ultimo album Buoni o cattivi in tuta arancione, con tanto di felpa con cappuccio sfoggiata anche durante il suo ultimo tour. Una ventata di contagiosa vitalità che non è certo passata inosservata e che ha dettato subito legge in fatto di moda.
Ma pare anche che l'arancione trasmetta in chi lo sceglie sensazioni di indipendenza e fiducia in se stessi. E se in origine fu l'«arancia meccanica» di kubrickiana memoria che in dialetto cockney significava «essere un po' sballati», oggi «arancione» si accosta al termine «rivoluzione» per definire l'ultima grande rivoluzione politica in ordine di tempo. Dicembre 2004: il popolo ucraino si riversa per giorni nelle strade di Kiev e con la sua pacifica e gioiosa costanza e tenacia porta il Paese stesso a staccarsi definitivamente da Mosca, rendendosi indipendente sotto la guida di Victor Yushenko, l'homo novus capace di vincere la cattiveria degli avversari e un attentato a base di diossina. Una pagina di storia tinta di arancione, come ribadì anche Atzo Nicola, ministro degli affari europei dei Paesi Bassi: durante il dibattito in sede di Commissione Europea elogiò il colore «simbolo della fratellanza e della solidarietà con tutti gli ucraini che vogliono delle elezioni libere e senza brogli».
Dinamismo e buona capacità di vivere le proprie scelte, dunque. Ma anche attività e creatività. La stessa creatività che ha portato l'arancione a farla da padrone anche nelle ultime tendenze dell'arredamento e del design: il colore è infatti considerato un generatore di calore, familiarità e semplicità. Un esempio? Il cotto, materiale versatile usato per la fabbricazione di vasi, mattonelle e piastrelle. Ma non solo: l'arancione è ormai diventato un must sulle tavolozze dei decoratori più all'avanguardia. Le pareti di salotti e, soprattutto, cucine si colorano di arancio, sprizzando energia positiva, sia fisica che mentale. Come riporta il sito www.designradar.it, dove leggendo si scopre anche che «il contenuto emotivo dell'arancione è il desiderio, la percezione delle emozioni da un punto di vista fisico, che significa esplorazione del mondo attraverso i sensi, per percepire e provare piacere».
E come non ricordare, a tal proposito, l'ultima opera di Christo e Jeanne-Claude, la coppia di artisti celebre per aver impacchettato i monumenti di mezzo mondo, compreso il Reichstag di Berlino? Abbandonato per una volta il cellophane, i due hanno deciso di rispolverare un vecchio progetto targato 1979: dopo anni di trattative e il definitivo benestare del nuovo sindaco newyorkese Michael Bloomberg, si sono autofinanziati la realizzazione di «The Gates», 7500 «porte» di acciaio che dal 12 al 27 febbraio scorsi hanno ornato i vialetti di Central Park, il polmone della Grande Mela. E quale colore potevano scegliere i due eclettici personaggi per colorare le loro creazioni? L'arancione, of course, poiché «come un fiume dorato le porte appaiono e scompaiono tra i rami nudi degli alberi, gettando un alone di luce sul parco ingrigito dai rigori invernali». Un allestimento che manifesta apertura e aria di casa. Un progetto addirittura giudicato da molti come «troppo frivolo», a conferma che l'arancione proprio non ce la fa ad essere preso sul serio fino in fondo.
Gioie e dolori di una tonalità mai scontata.
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