
È forse la prima opera d'arte che io ho amato, Il Compianto sul Cristo Morto di Niccolò dell'Arca. Amato in senso letterale, erotico. In un lontano libro, Davanti all'immagine, raccontai un'esperienza di analogo trasporto compiuta negli stessi giorni di fronte a un altro capolavoro della scultura, il Monumento funebre per Ilaria del Carretto di Jacopo della Quercia (1406-1407) conservato nella chiesa di San Martino a Lucca.
È singolare che io sia partito da sculture, l'oggetto forse di maggiore interesse per me. Non dipinti, non opere di arte contemporanea, ma sculture del Quattrocento: il Quattrocento italiano, l'epoca, forse, di più alta compiutezza e perfezione della nostra arte, della nostra civiltà che si denomina Rinascimento.
Il Compianto sul Cristo Morto di Niccolò dell'Arca è conservato in una nicchia della piccola chiesa di Santa Maria della Vita a Bologna, a pochi passi dalla cattedrale di San Petronio. Nulla meno di un'apparizione - entrando in questa chiesa allora poco illuminata - questo Compianto, da pochi, troppo pochi conosciuto, pur essendo una delle più importanti sculture del '400, opera di uno scultore che non teme confronti con Donatello e Michelangelo. Poco illuminato era, tanto che il grande fotografo Nino Migliori, bolognese, ha voluto restituire quella impressione originaria, fotografando il Compianto al lume di candela.
Viene dalla Puglia - Nicolaus de Apulia, si firma sul Compianto - portando a Bologna impulso meridionale, passione, fuoco, desiderio.
A differenza del coevo scultore pugliese, Stefano da Putignano - di cui tante nobili testimonianze si trovano nelle chiese della Valle d'Itria, a Locorotondo, Cisternino, a Putignano - Niccolò non rimane al Sud ma emigra. E, a Bologna, a tal punto si impone, che viene chiamato a lavorare alla cimasa dell'Arca che raccoglie le spoglie di San Domenico, uno dei due principi della Chiesa, guida di essa, insieme a Francesco, come indica Dante nel Canto XI del Paradiso: «due principi ordinò in suo favore, che quinci e quindi le fosser per guida. L'un fu tutto serafico in ardore; l'altro per sapienza in terra fue di cherubica luce uno splendore».
Difficile pensare a una committenza più gloriosa per uno scultore meridionale, giunto a Bologna, che adornare l'Arca di uno dei principi più autorevoli della Chiesa. Nell'arca di San Domenico, che risale a un secolo prima, si stabilisce di erigere una cimasa a cui Niccolò - d'ora in poi, tale è il prestigio dell'impresa, denominato «dell'Arca» - lavora assieme a un giovane prodigio che già si era segnalato per talento precoce, ostinata volontà, dedizione ossessiva e assoluta alla scultura, Michelangelo, ora a Bologna in fuga da Firenze.
Niccolò non deve avere avuto esitazioni nel riconoscere il destino del giovane, tanto che i due angeli della cimasa sono, uno di Niccolò, l'altro di Michelangelo. E già in questo prodigioso inizio è lampeggiante il Michelangelo della maturità. Ma Niccolò sta alla pari di Michelangelo, sta affianco a lui, ancorato al meraviglioso Quattrocento che Michelangelo chiuderà con un sussulto, la Pietà Vaticana (1499), e aprirà con il manifesto di una nuova epoca, il David (1501). Ma tra il 1469 e il 1473 Michelangelo è l'allievo, e Niccolò il Maestro, che si cimentano per onorare il Santo della cherubica e luminosa sapienza. Compiuta quest'opera, o forse addirittura prima di compierla, Niccolò inventa questa sacra rappresentazione, un vero teatro sacro e tragico che traduce la nostra fede: il Cristo, bellissimo, il Figlio di Dio è morto. Intorno a lui c'è Nicodemo, che lo ha deposto dalla croce, che qui ha le fattezze di un mercante bolognese dall'aria tranquilla, paciosa, tutto compreso nel suo ruolo, un Romano Prodi del Quattrocento.
Poi c'è il doloroso, affilato, il prediletto, San Giovanni Evangelista, l'immagine della tensione e della sofferenza. In lui, che raccoglierà il messaggio evangelico nella forma più filosofica, che farà sua l'ispirazione per l'Apocalisse, si rappresenta il silenzio del dolore, il dolore come meditazione estrema sul senso della morte e della vita. Il gesto della mano, l'espressione del volto sono talmente potenti che, da soli, sono sufficienti a sbalzare fuori Niccolò dal Quattrocento, cui appartiene biograficamente, per proiettarlo nella assoluta contemporaneità. E, poi, le Marie. Anzitutto Maria, la madre di Gesù. Il dolore non è ancora urlo, ma non è più meditazione. È uno strazio inconsolabile, è un morire da vivi, che deforma il volto in una contrazione eterna. È la prima volta che l'arte arriva a deformare, fino quasi a sfigurare, il volto di Maria.
Quindi Maria di Cleofa, che accompagna il grido con un gesto meraviglioso: mani allontanano l'immagine, insostenibile, del Gesù morto, verso cui pure tende in un alternarsi di emozioni vertiginoso. E, infine, Maria Maddalena, che giunge come una furia amorosa.
Due secoli dopo così scriverà San Giovanni della Croce nelle Coplas al Divino: «Più salivo in alto più il mio sguardo s'offuscava, e la più aspra conquista fu un'opera di buio; ma nella furia amorosa ciecamente m'avventai così in alto, così in alto che raggiunsi la preda. Quanto più sfioravo il sommo di questo esaltato furore, tanto più mi sentivo basso, arreso, domato. Dissi: non sarà mai di nessuno! E tanto in basso rovinai che mi trovai così in alto, così in alto che raggiunsi la preda. In una strana maniera il mio volo superò mille voli ()». Se Maria di Cleofa distoglie lo sguardo, Maddalena desidera abbandonarsi al dolore, si avventa sul corpo di Gesù come oggetto di Eros, e urla, come mai nell'arte si arriverà a urlare. Niccolò scolpisce il suono, sentiamo il diapason fuori scala di Maddalena. E vediamo lo slancio, l'impeto di lei dall'attrito del vento, che fa aderire le vesti al ventre, alle cosce e al seno, e che sospinge indietro il velo e il panneggio. Non si era mai visto nulla di simile nella scultura del Quattrocento, e bisognerà aspettare l'Urlo di Munch per trovare qualcosa di analogo. Ma la scultura non ha più raggiunto un tale vertice drammatico, non Donatello, non Giacometti, non Michelangelo. E dobbiamo immaginare Michelangelo, giovane, davanti a questa opera così espressionista, meditarla nella sua cristallina intelligenza, compararla al volto di Eva di Masaccio della Cappella Brancacci.
Sono immagini di una tale potenza, che avranno certamente lavorato nella sua anima, come una sinfonia di Mahler, per deflagrare nel grande affresco del Giudizio Universale, e per sciogliersi nell'abbraccio finale, doloroso e silenzioso della Pietà Rondanini.
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