Si intitola «Renato Farina alias Agente Betulla. Storia di uno 007 italiano» (Piemme, pagg. 224, euro 13,50) il nuovo libro di Renato Farina (del quale anticipiamo un capitolo in questa pagina) in cui il giornalista racconta di come sia diventato, a partire dal 2004, il tramite di ricerche per la liberazione degli italiani sequestrati in Irak con il nome in codice «Betulla» e il suo rapporto con il generale Nicola Pollari, direttore del Sismi (il servizio segreto militare) e con il suo assistente Pio Pompa. Radiato dall’ordine dei giornalisti, oggetto di dure critiche ma anche di appassionate difese, Farina con questo libro racconta (quasi) tutta la verità sull’agente «Betulla»...
di Renato Farina
Alle 21 e 53 del 14
aprile del 2004 alzo
mezzo morto la cornetta
del mio telefono
a «Libero». A
quel tempo lavoravamo in un
cortilaccio nella periferia di Milano,
in via Merano. Un loft di
tipo newyorkese, elegante,
profumato, tra le cacche di cane
e le siringhe dei tossici. Mi
porto il ricevitore all’orecchio,
e sono stufo del mio gabbiotto
di vetro e ho voglia di tornare a
casa. C’era stato il rapimento di
quattro italiani in Irak. Agliana,
Cupertino, Quattrocchi e
Stefio. Ragazzoni andati là un
po’per mettere via qualche soldo,
un po’ per spirito di avventura:
insomma per lavorare.
C’era da ricostruire un Paese distrutto
dalla dittatura e dalla
guerra. E loro facevano le guardie
del corpo per i tecnici delle
imprese che stavano lì per riparare
i danni. Contractor. Mi stavano
simpatici. Le dieci di sera
in Italia erano le undici in Irak:
non ci sarebbero state altre notizie
se non quella di cui non si
sapeva niente. Giornale chiuso.
Uffa. Sono le 21 e 53 quando sento la voce del mio vecchio amico Imad El Atrache da Doha, Qatar, Al Jazeera. «Sta’ fermo. Non parlare. Non mettere giù il telefono. Ti devo dare una brutta notizia. Uno dei quattro italiani è stato ammazzato. Tra 6 minuti e 30 secondi noi apriamo il telegiornale con questo fatto. Tu-sta’-lì-non-muoverti! Non parlare a nessuno. Appena lo speaker dà la notizia io ti intervisto e dài il tuo commento. Ma non devi dirlo a nessuno, sta’ lì».
Io mi metto a urlare tenendo tappati con le mani i forellini da cui entra la voce e finisce fino in Qatar. «Ehi, ehi, hanno ammazzato uno dei rapiti in Irak!».
Quando si ha una notizia esclusiva di questo genere, uno pensa che nei giornali si affolli la gente sull’uscio come nei film, con la faccia stupita e forse attonita. Invece quando arriva una notizia la sera è un guaio. Tutti pensavano già a sgattaiolare via, fingono di non sentire. Urlo. Non arriva nessuno. Ho il cellulare tra le mani. Ho in memoria il numero di Pollari. Doveva dare lui notizie a me, voglio darne una a lui. Perché prepari le famiglie, il governo, se ci sono uomini nostri intorno al covo, siano informati, non lo so, non so come accadono queste cose, ma so di saperlo solo io in Italia. Sms. Altro sms. Non risponde niente. Telefono. Risponde un attendente: «Il direttore sta mangiando». «Glielo dica lei, allora». Chiamo Beppe Moles, il segretario di Martino: lui c’è. Dice che chiama subito Martino. Sono già le ore 22, il telegiornale di Al Jazeera dice delle parole in arabo dentro le mie orecchie.
Imad: «Sei pronto? Ora ti faccio delle domande». Farina (qui non voglio chiamarmi Betulla, non voglio scherzare): «Questo assassinio ci inonda di dolore ma non ci atterrisce, resisteremo a questa prova. Gli italiani non si ritireranno sotto ricatto dall’Irak». Dissi altre parole convulse, quasi di sfida, ma anche di dolcezza e di lutto. Ci dev’essere qualche registrazione a Doha di quel mio intervento. Finita l’intervista, Imad mi dice: «Ho visto la cassetta, non ti posso dire chi è stato ucciso. Lo dirà l’ambasciatore italiano alla Farnesina».
Telefona Pollari: «Guarda che è una bugia, un falso. Abbiamo fonti da Doha e dall’Irak: ci assicurano che sono tutti vivi. Vogliono spaventarci per alzare il prezzo». Replico: «No, ne so più di te. Più io di tutte le tue maledette fonti bugiarde. Se la persona che mi ha parlato mi assicura che uno dei nostri è morto, ucciso con un colpo di pistola, vuol dire che è vero». Pollari: «Non cascarci. Ti fidi troppo degli arabi». (Questo è un colpo basso, vuole mettermi al mio posto, deve averlo chiamato Martino, e si sente saltato.)
Betulla (non ancora Betulla, ma quasi ormai Betulla): «Chi me lo ha detto è un amico vero, non mi mentirebbe mai in questioni così gravi, ed escludo per i rapporti che ha sia stato preso in giro dai sequestratori». Mi chiama il ministro Martino. Risento Imad. Scrivo l’articolo per «Libero». Alle 23 e 30 circa, una luce sul quadro del cellulare. È Imad: «È incredibile. Sto guardando Porta a porta, tengono quei familiari nell’incertezza. Prima delle 10 il nome del morto era certo. L’ho riconosciuto io e l’ha riconosciuto l’ambasciatore Giuseppe Buccino Grimaldi chehofatto venire nello studio su invito del direttore».
Undici minuti dopo mezzanotte, Imad è a casa sua. Mi chiama da lì, vede dal suo divano color oro Porta a porta: c’è ancora il ballo del dubbio,il voltomummificato dei parenti. «Chiamali, dài il mio numero, e lo dico io chi è. Ora a te lo dico: è Quattrocchi». Chiamo sul cellulare Bruno Vespa durante una pausa pubblicitaria: «Frattini conferma. È Quattrocchi, i parenti sono informati. Dillo tu, resta in linea».
Bruno Vespa: «Abbiamo al telefono il vicedirettore di “Libero”, Renato Farina». È mezzanotte e trentacinque minuti. Io: «Ho parlato con Imad El Atrache, caposervizio dell’emittente Al Jazeera, che mi ha detto che è Fabrizio Quattrocchi emi ha detto che ritiene che il governo italiano lo sapesse prima delle dieci, perché ha provveduto lui a far vedere le immagini».
Vespa: «Chi ha fatto il riconoscimento? ». Io: «Da quello che mi ha detto lui (Imad), anche nella concitazione, credo sia stato il nostro ambasciatore». Frattini conferma. E mi trasformo in becchino elettronico. I parenti di Quattrocchi a Genova non sapevano nulla. Senza bussare alla porta, senza guardarli in faccia e dare loro una mano, gli ho buttato tra i piedi il loro caro assassinato! Questo lo avrei saputo solo l’indomani.
* * *
Sono in auto. È passata l’una. Imad al cellulare: «Ascolta: io non so che mestiere facesse Quattrocchi. So che voi italiani dovreste essere orgogliosi per come è morto». Mi sono appuntato queste parole. Il mio giornale è chiuso. Non posso farlo sapere alla concorrenza di come sia morto da eroe. Eppure l’ambasciatore ha visto, perché non l’ha fatto sapere a Frattini? Una memoria così sarebbe stato il ribaltamento dall’angoscia in una forma strana di speranza. Se si muore concoraggio, la battaglia è buona, la morte non porta via la dignità e l’onore (che parola mai detta prima da me: onore).
Il mio impulso è: farlo sapere a Berlusconi, che possa consolare la famiglia, darci forza in televisione. Non riesco a parlarci. Troppo tardi. Alle sette del mattino mi chiama Marinella Brambilla, a cui avevo lasciato un sms nella notte. Riferisco le frasi di Imad.
È a quell’ora che apprendo dalla radio di come la famiglia di Quattrocchi fosse stata pugnalata dalla mia voce. Telefono a Imad: raccontami-tutto. Lui scrive. Manda quello che è accaduto in quelle ore. Io riscrivo e rimando. Imad approva. Gli dico anche: questo è lavoro, anche per ieri sera, ti faccio pagare 1.000 euro minimo.
La telefonata e il generale Pollari
Caro Direttore,
ti sono molto grato per la pubblicazione di un brano del mio libro "Alias Agente Betulla" dove tratto delle convulse ore del rapimento e dell'assassinio di Fabrizio Quattrocchi in Irak. La pagina è stata letta dai protagonisti di quelle ore che non sentivo più da quel dì. E così posso essere più preciso. Non fu il generale Nicolò Pollari, allora direttore del Sismi, a non credermi quando comunicai al telefono la notizia della morte di un ostaggio, bensì un funzionario cui mi indirizzai non riuscendo a mettermi in contatto con il generale.
Renato Farina
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