E ora difendiamo la riforma Gelmini dai cattivi maestri

Come docente universitario vorrei spiegare perché il bilancio tra aspetti positivi e altri meno convincenti mi spinge ad augurarmi fermamente che la riforma Gelmini venga definitivamente approvata dal Senato.
Una premessa. Questa vicenda non lascerà soltanto sul terreno lo spettacolo di manifestazioni violente, del tentativo di resuscitare il Sessantotto, di ridicole scalate ai tetti nella compagnia patetica di politici in cerca di consenso. Lascerà un clima avvelenato nelle università per colpa di chi ha riesumato la dottrina della superiorità antropologica che, nel caso specifico, si declina così: chi non è contro la riforma o è un cretino o (...)
(...) un mascalzone, tertium non datur. Chi ha osato difendere la riforma - per non dire chi ha firmato l’appello promosso da Magna Carta - ha ricevuto poche contestazioni di merito. Per lo più ha ricevuto bidoni di insulti, ed è stato additato come chi, mettendosi fuori dalla comunità universitaria che «vale», d’ora in poi dovrà varcare la soglia degli atenei a capo chino e strisciando lungo i muri. «Mi dispiace per te», mi ha scritto un collega.
Resta sul terreno uno spettacolo di immaturità civile e culturale, che casomai rende ancor più urgente l’esigenza di una riforma profonda che restituisca all’università una dignità corrotta da decenni di faziosità, ben rappresentata dal silenzio con cui furono accolte riforme davvero devastanti ma promosse da governi «amici». Per parte sua, il centrodestra dovrebbe cospargersi il capo di cenere per aver avuto tanta poca attenzione per la cultura e aver creduto che essa fosse inevitabilmente appannaggio degli «antropologicamente superiori», sperando di conquistarne la benevolenza per poi ritrovarseli di fronte più ostili che mai e chiedersi con smarrimento dove fossero gli «altri»; che ci sono, eccome, e sono anche tanti docenti di sinistra che ragionano senza pregiudizi e fuori da logiche di scontro, tutti abbandonati alla scomunica degli «antropologicamente superiori». Basta leggere l’articolo di Michele Salvati sul Corriere della Sera di ieri per rendersi conto che questi docenti che vogliono ragionare per il bene dell’università esistono, eccome.
Veniamo al merito. Cosa trovo di positivo nella riforma? In primo luogo, il percorso di reclutamento. Sei anni in cui un ricercatore può dare prova delle proprie capacità e, se il giudizio è positivo, accedere al posto fisso. Chi si straccia le vesti parlando di «precariato» dovrebbe chiedersi in quale posto al mondo, a parte il Paese dei balocchi, si può accedere al massimo grado del sistema dell’istruzione e della ricerca senza dar prova di meritarlo con un congruo periodo di prova. Per farsi assumere da un’università degna di questo nome, è inevitabile fare una trafila di borse postdottorali o posizioni «precarie» per dare prova del proprio valore.
Si parla a vanvera degli Stati Uniti senza dire che non soltanto le cose stanno così anche e soprattutto laggiù, ma che, anche quando si è conseguito il «posto», questo non è mai fisso; e meno lo è quanto più l’università è di prestigio. Rischi sempre di essere buttato fuori. Casomai andrebbe detto che questa minaccia ha l’effetto negativo di impedire lo sviluppo di programmi di ricerca di ampio respiro, un pericolo che da noi non si pone. Trovo positivo il meccanismo di idoneità nazionale, che funziona benissimo in Paesi come la Francia. Oggi chi sale sui tetti dimentica che quel sistema fu proposto da molti docenti, in testa Umberto Eco, agli inizi del ministero Berlinguer, che invece si orientò verso il pernicioso sistema dei concorsi locali a tre idoneità, da cui discende buona parte del disastro attuale. Ed è un bene che siano i professori ordinari ad assumersi la responsabilità dei giudizi e che non siano docenti ricattabili in quanto candidati ad avanzamenti di carriera.
Uno degli aspetti più qualificanti della legge è l’introduzione di criteri meritocratici che legano sia la progressione di carriera e di stipendio dei singoli che i finanziamenti dei dipartimenti e degli atenei alle prestazioni in termini di ricerca e di didattica. Come ha scritto Salvati, questa legge, che pure egli non considera «buona», va nella direzione di un’università confrontabile con le migliori estere. Potrà e dovrà essere migliorata ma si tratta di un passo avanti importante, fuori da un pantano in cui l’università italiana rischia di affondare definitivamente.
Vi sono aspetti che destano perplessità. Non era convincente la presenza eccessiva nel consiglio di amministrazione di «manager» esterni di dubbia qualifica e funzione. Ma la correzione che ha ridotto la loro presenza dal 40 per cento a meno del 30% e la precisazione che debbono possedere una qualificazione scientifica e culturale, ha migliorato molto le cose. Come dicevo sopra, il principio della valutazione e della meritocrazia è sacrosanto, anzi è la cosa più importante. Bisognerà però vigilare in modo estremamente attento al modo in cui la valutazione verrà implementata. Ad esempio, non trovo per nulla convincente, e anzi francamente demagogica, l’attribuzione di un ruolo fondamentale nella valutazione al giudizio degli studenti. Bisognerebbe tenere conto, al riguardo, di un recente studio sviluppato all’Università Bocconi - con tutti i crismi delle competenze econometriche ivi coltivate - secondo cui, con quel criterio, accade che i professori peggiori ricevano le migliori valutazioni e i più bravi le peggiori, soprattutto se gli studenti che valutano sono scadenti... È da augurarsi, inoltre, che si vada con i piedi di piombo nell’affidarsi alle valutazioni bibliometriche (ovvero al conteggio delle citazioni dei lavori scientifici), non dando retta agli adepti acritici di questa metodologia, come il professor Giavazzi, che fanno orecchie da mercante alle critiche che ormai piovono dagli organismi scientifici più qualificati all’estero (a meno che il mito dell’«estero» non serva solo quando fa comodo). Non trovo migliorativi una serie di emendamenti che sono passati nella guerriglia parlamentare, come la riserva di posti di associati che, di fatto, rappresenta un passaggio quasi automatico per i ricercatori attuali, che non sono precari. Né appare sensato da un lato parlare di incrementi di stipendio legati al merito («scatti meritocratici», li si è chiamati) e poi riservarli ai più giovani, il che può rispondere forse a problematiche di consenso, ma che con il merito non ha niente a che fare, posto che la gioventù non è un merito e asini e nullafacenti allignano ovunque.
Si potrebbero aggiungere molte altre considerazioni e riserve; e soprattutto invitare il mondo politico (tutto) a promettere per il futuro un profondo e reale interesse per la cultura e la ricerca, se non altro con la motivazione riduttiva che si tratta di un motore fondamentale per l’economia. Le riserve vanno avanzate non per suggerire altri temi su cui riaprire la discussione nel prossimo passaggio al Senato, che invece deve essere rapido e senza ulteriori variazioni che farebbero naufragare definitivamente la riforma. Si tratta di partire dal dato che la riforma Gelmini è un passo avanti importante, non una tappa conclusiva, bensì una base valida su cui iniziare a lavorare per rimettere in moto l’università italiana e riqualificarla, con un coinvolgimento costruttivo del mondo universitario. Costruttivo e ragionato, senza anatemi e senza ascensioni ai tetti.
Diversamente, sarà la vittoria di chi vuole far restare l’università nel pantano.

L’opposizione farebbe un atto di responsabilità, suggerito anche da molte personalità di sinistra, a chiudere la partita evitando la tentazione poco responsabile di legarla alla legge di stabilità o alla crisi politica.

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