
Giovanni Spadolini scrisse Il Papato socialista a ventiquattro anni. Era un "giovanotto", come annotò nel suo diario Giovanni Ansaldo, "di animo buono, molto educato, senza sbruffi giovanili". Da qualche tempo, malgrado la verde età, frequentava il mondo intellettuale soprattutto quello che ruotava attorno a Papini, Prezzolini, Missiroli, Ansaldo e Longanesi e collaborava a diverse testate. I suoi articoli erano seguiti con interesse tant'è che Mario Pannunzio, colpito da uno scritto su La crisi del laicismo, lo volle fra i collaboratori di Il Mondo. Ed egli esordì su questo periodico con un articolo su Il Papato socialista, lo stesso titolo poi utilizzato per il suo libro più celebre uscito all'inizio del 1950. Su tale rivista laicista, liberale, europeista, elitaria Spadolini, che ragionava già da storico, si trovò a suo agio: lì poteva rileggere la recente storia italiana in chiave iconoclasta contribuendo alla revisione critica del Risorgimento, al recupero di un Risorgimento senza eroi, per usare la celebre espressione di Gobetti. La crisi del laicismo, frutto del contrasto fra cattolicesimo e liberalismo, divenne per lui un tema quasi ossessivo per cui, quando Longanesi gli chiese un volume, propose Il Papato socialista centrato su tale argomento.
Scritto di getto nell'estate del 1949, il libro è denso di riflessioni che rivelano il peso di una cultura storica e filosofica in linea con la tradizione dell'idealismo italiano. Nella prima parte Spadolini riprende la contrapposizione tra liberalismo e Chiesa facendo notare come questa abbia elaborato una dottrina "socialista" contro il pericolo del liberalismo e abbia affermato una posizione "rivoluzionaria" rispetto all'ordine dello Stato liberale con l'obiettivo di "svuotare le strutture liberali, accettando le rivendicazioni socialiste, inquadrate nell'orbita cattolica". Nella seconda parte, si occupa del caso italiano introducendo il concetto di "monarchia giacobina" cioè di una monarchia divenuta "presidio della rivoluzione laica, espressa nella conquista giacobina". Gli uomini della Destra storica realizzarono, a suo dire, una "rivoluzione laica" senza cedere alle illusioni dei rivoluzionari perché, rifuggendo dalle "astrazioni" avevano "un senso politico" concreto e "una cultura storica che li allontanava dai fantasmi dell'ottantanove". Il loro laicismo aveva un carattere particolare: per loro, la conquista di Roma avrebbe dovuto permettere l'affermazione della libertà religiosa e la separazione fra autorità civile e religiosa". A loro succedette la sinistra storica, "meno nutrita di quel "senso dello Stato" ch'era stato la forza della destra e così rumorosa, retorica e tribunizia da "esasperare le posizioni di quel laicismo che la destra non aveva quasi mai ostentato, appunto perché l'aveva attuato".
Durante il periodo giolittiano, che sarebbe diventato uno dei temi privilegiati di studio dello Spadolini degli anni a venire, maturò un "idillio" tra socialismo e monarchia: il primo, infatti, accettata l'eredità della democrazia risorgimentale, "ultima espressione del pensiero borghese" trovò il proprio "alleato nella monarchia, che conservava in sé il segreto della conquista unitaria, oltre tutti i programmi di rinnovamento ideologico e oltre tutte le pregiudiziali di riforma religiosa". Con Giolitti, insomma, si attuò, con la "mediazione monarchica" un processo di identificazione fra socialismo e democrazia: si realizzò, in altre parole, quella che Mario Missiroli aveva chiamato in un celebre libro, a Spadolini ben noto, La monarchia socialista.
L'avvento del fascismo rappresentò, per Spadolini, la fine del Risorgimento o, per meglio dire, "la fine del laicismo, di quel laicismo che aveva compenetrato tutte le fasi storiche del post-Risorgimento". Naturalmente, la Chiesa aveva profondi, ancestrali e radicali motivi per opporsi al fascismo, come ideologia e come regine, e non erano sufficienti per sanare il contrasto gli atti formali e conciliativi del regime. In fondo il fascismo e qui il giovane Spadolini anticipa tutta un filone di letteratura storiografica che, a partire da Jules Monnerot, avrebbe presentato quel regime come una "religione secolare" aveva le caratteristiche di un vero e proprio culto religioso. Con la fine del fascismo, "tanto assecondata e favorita dal Papato", il Vaticano si adoperò perché la Democrazia Cristiana divenisse fulcro di una "esperienza politica" che permettesse di tornare allo spirito ideale del neoguelfismo. Per Spadolini Dc e Pci potevano ben disinteressarsi dell'eredità risorgimentale fino a negarla del tutto.
La ricostruzione delle vicende dell'Italia post-risorgimentale fatta da Spadolini ha connotati provocatori, frutto della combinazione di orianesimo e gobettismo con una spruzzata di salveminianesimo e di "vocianesimo". Essa, però, è un canone interpretativo privilegiato per rileggere in chiave "revisionistica" una storia fino ad allora raccontata in tono agiografico. Il Papato socialista, rientra, così, a pieno titolo in quel filone storiografico che lungo la direttrice Oriani-Missiroli-Gobetti puntava a una revisione della storia del Risorgimento individuando nel problema religioso più esattamente nella mancata riforma protestante la causa principale di certe sue caratteristiche.
Il Papato socialista provocò reazioni, talora critiche talora imbarazzate, ma spesso generiche od elusive, soprattutto da parte cattolica o marxista. Accanto alle riserve vi furono, però, anche articoli di convinta adesione alle tesi del libro. Tra questi, ve ne fu uno di Indro Montanelli: un elzeviro del quale Spadolini fu sempre orgoglioso attribuendogli sia l'esaurimento dell'intera edizione sia la nascita di una lunga e sincera amicizia. In effetti Montanelli chiudeva con un elogio senza precedenti: "giù il cappello: un autentico scrittore politico ha preso, con questo libro, il suo via". E che l'elogio fosse sincero lo dimostra il fatto che, anni dopo, tornò su Spadolini con un gustoso ritratto dove si apprende che Longanesi, consegnandogli Il Papato socialista appena uscito dai torchi di stampa, gli disse: "È qualche decennio che in Italia non viene fuori un saggio storico-politico di questa forzaAltro che Gobetti!".
La verità è che Il Papato socialista pur nato in un momento storico particolare e pur sostenuto da una visione orianesco-gobettiana della storia che può piacere o non piacere per certo suo
moralismo apodittico è un libro che non invecchia e che invita a misurare e confrontare le sue intuizioni e suggestioni con la realtà storica effettuale. È uno di quei libri che lasciano al lettore qualcosa. Il che non è poco.