Milano - Esiste il diritto al rifiuto delle cure, ma anche il diritto alla vita. Il conflitto è destinato ad uscire dai confini delle coscienze per andare a scuotere invece le aule giudiziarie. Questo il destino del caso Piergiorgio Welby, l’uomo che chiese e ottenne l’eutanasia e di Mario Riccio, il medico che nel dicembre scorso praticò la dolce morte all’esponente radicale gravemente minato dalla distrofia muscolare. Ora l’anestesista che accolse l’invito di Welby, partì da Brescia, arrivò a Roma, staccò la ventilazione e accompagnò alla morte quell’uomo ammalato da quando aveva 18 anni, dovrà essere processato. Il gip del tribunale di roma, Renato Laviola ha imposto al pm che per due volte aveva chiesto l’archiviazione, di formulare l’imputazione coatta. Riccio dovrà rispondere di «omicidio del consenziente». Il perchè è contenuto in sette pagine di motivazioni destinate a far riflettere. Tutti. Favorevoli o contrari. «La morte di Piergiorgio Welby è stata determinata da una sorta di eutanasia passiva», così comincia il gip. «Non si è trattato di eutanasia» semplice, ma di «eutanasia passiva» una circostanza che non si sarebbe potuta verificare senza «l’intervento attivo dell’anestesista Mario Riccio». Il gip ammette che nel nostro ordinamento «c’è il diritto al rifiuto delle cure» anche per motivi etici e religiosi, costituzionalmente garantito. Ma nel caso di Piergiorgio Welby c’è stato un intervento attivo di Riccio, giunto apposta a Roma per praticare l’interruzione della ventilazione, che, sottolinea il giudice, «non era il suo medico curante» ed era soprattutto stato chiamato per esperire quella pratica. In questo caso dunque non si è consumato il diritto di ognuno a rifiutare le cure, perchè nel caso di Welby l’eutanasia passiva «non è consistita nella mera omissione di cure e trattamenti». Ma il gip afferma un altro principio importante. «Esiste - scrive - un diritto alla vita» che pure se non è codificato si fonda su varie fattispecie e molte norme codificate, «come i reati che sanzionano l’omicidio del consenziente e l’istigazione al suicidio».
«Sono sorpreso della richiesta di imputazione coatta. Sarà un’occasione per approfondire il dibattito sul rifiuto delle terapie» è stato il commento di Mario Riccio. Lui ne è convinto: la situazione che si è creata intorno al caso Welby è da ricondurre anche «all’arretratezza del dibattito culturale in Italia sui temi etici, basta vedere la legge sul testamento biologico». Basti pensare che tra le motivazioni del gip ci sono «concetti più inerenti all’etica che al campo giuridico: eutanasia passiva è un concetto di tipo bioetico, in un certo senso anche superato». «Ci sono condotte sanitarie non eticamente accettabili da tutti - conclude l’anestesista - ma non vuol dire che non si possano praticare, ad esempio l’interruzione di gravidanza».
Sulla decisione di non archiviare il caso di Mario Riccio è sceso in campo anche Ignazio Marino, presidente della Commissione igiene e sanità del Senato: «In molti paesi stranieri interrompere le terapie in un malato terminale quando non c’è più alcuna speranza di ripresa ed è il paziente stesso che non intende prolungare oltre la sua inutile agonia, è una prassi che avviene ogni giorno in tutti gli ospedali. Io stesso, quando lavoravo negli Usa, ho sospeso le terapie a malati per i quali non c’era più nulla da fare». «Questo non significa uccidere - spiega Marino - ma accettare la fine naturale della vita. Nel nostro Paese, invece, questo atto è considerato un reato penale gravissimo, l’omicidio del consenziente. Questa situazione richiede una riflessione molto seria.
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