E il terzo incomodo Marino già strepita e grida all’inciucione

LA POSTA IN GIOCO Gli ex Ppi non possono essere tagliati fuori in vista delle Regionali

RomaLa «ditta» prima di tutto, come ben sa Pierluigi Bersani che, «nell’interesse della ditta» Pd, rinunciò a sfidare Walter Veltroni. E per il bene della ditta, finite le primarie ed eletto il segretario, si deve tornare tutti insieme. Con vincitore e sconfitto fianco a fianco ai vertici del partito.
La posta in gioco è soprattutto una: le elezioni regionali del prossimo anno. È in vista di quella cruciale scadenza che, dietro lo scontro per la leadership, sta spuntando l’appeasement post primarie. Alzi la mano chi riesce ad immaginare, ad esempio, che gli ex Ppi, oggi quasi tutti schierati con Franceschini, in caso di sconfitta del loro candidato se ne stiano all’opposizione lasciandosi tagliare fuori dalla trattativa per liste e incarichi. Impensabile.
E infatti non lo si vedrà: come vaticina Goffredo Bettini (sponsor del terzo incomodo Ignazio Marino), «dopo le primarie ci sarà una maggioranza dell’80%». E tutti insieme si piazzeranno i candidati.
A rilanciare il sospetto di «inciucione» tra gli altri due candidati, è appunto Marino: «Caro Dario, ci prometti che se non sarai segretario non accetterai altri posti di consolazione?». L’ipotesi è che, in caso di sconfitta, il segretario uscente resti comunque ai vertici del partito, come capogruppo o presidente del Pd. Sia Franceschini che Bersani smentiscono sdegnati. «Nessuna trattativa, nessun accordo».
Ma, come ama ricordare Franco Marini, Obama ha offerto un posto di primo piano alla sua sfidante Clinton: perché - si parva licet - non si può fare lo stesso nel Pd? Anche Walter Veltroni, nel fermento buonista che percorre il partito alla vigilia delle primarie (e, almeno secondo i sondaggi, la vittoria di Bersani e la sconfitta del suo candidato Franceschini), manda un segnale di pace al futuro leader: «Vediamo il risultato. Ma io amo il Pd, e quindi cercherò di dare una mano come ho fatto in questi mesi». Magari nella speranza che un largo accordo attorno a Bersani (uomo molto «inclusivo», come dice anche la Binetti) sia l’unico argine capace di impedire a Massimo D’Alema di riprendersi il partito e governarlo per interposto segretario. La stessa idea coltiva ad esempio Piero Fassino, che - da ex segretario ds che ha «tradito» la ditta schierandosi con Franceschini - non vede certo di buon occhio l’avvento di un Pd dalemiano. E da settimane continua a evocare la «gestione unitaria» post congresso: ieri sottolineava che «c’è una sola domanda che sale dalla base: che l’unità del partito sia un vincolo per tutti». Non è un caso che nelle ultime settimane, dalle sponde franceschiniane, si sia polemizzato aspramente con D’Alema, e non con Bersani. Come non è un caso che D’Alema sia quello che si è più opposto al famoso «lodo Scalfari», denunciato da Ignazio Marino come prodromo dell’«inciucione» tra Bersani e Franceschini.
Il quale si è battuto come un leone per mesi, ma ha capito che non c’era più partita quando Ezio Mauro ha ipotizzato di votare «scheda bianca» e poi quando nel suo editoriale domenicale Scalfari (che pure a luglio aveva annunciato il suo voto per lui) non lo ha nominato. L’endorsement atteso non è arrivato.

Repubblica si è fatta due conti, ha capito che l’impresa di portare un ex Dc a capo dei Ds era quasi disperata, e ha ripiegato sul piano di riserva: creare un cordone sanitario attorno a D’Alema, attraverso un bell’accordone di tutti su Bersani. Poi si possono attendere le Regionali, nella ragionevole certezza che, se per il Pd fossero una batosta, la giostra della leadership tornerà a girare e Repubblica potrà tornare a giocare le sue fiches.

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