Col piglio del moralista vecchio-Piemonte, Ezio Mauro ha denunciato su
Repubblica, il quotidiano da lui egregiamente diretto, il presunto
inciucio tra Rai e Mediaset. Basandosi sulle solite intercettazioni, ha
fatto sapere che dirigenti e giornalisti delle due aziende si
consultavano prima di mandare in onda fatti di rilievo, dai funerali di
Papa Wojtyla ai sondaggi elettorali. Il tutto a scapito della sana
concorrenza e allo scopo meschino di favorire il Cavaliere, all’epoca
(2004-2005) presidente del Consiglio.
Il direttore ha poi commentato
la vicenda il 22 novembre con un editoriale apocalittico. Ha evocato,
nell’ordine, la fine del giornalismo indipendente, il dominio di un
«Grande Fratello» dell’informazione, di una «rete segreta» pro
Berlusconi, di un «meccanismo totale perverso» e infine di una
«struttura delta» che, per la verità, solo Mauro sa cosa sia. La
fulgida intemerata termina avvertendo che tanto orrore è frutto della
«stessa mano che domani proporrà le larghe intese». Ossia, che dietro
al putridume c’è l’artiglio del Cavaliere.
La chiusa è illuminante.
Ci dà la chiave per capire cosa ha spinto Mauro a montare la panna. Il
padrone di Repubblica, l’ingegner Carlo De Benedetti, è seccato per gli
accordi che si profilano tra il capo del Pd, Walter Veltroni, e il
leader del Partito della Libertà, Berlusconi. De Benedetti - grande
sponsor di Walter e tessera numero uno del Pd - vede come fumo negli
occhi intese col suo acerrimo nemico che lo ha recentemente battuto sul
caso Sme. Perciò ha ordinato a Ezio di gonfiare il caso Rai-Mediaset.
Ha pensato così di prendere due piccioni con una fava: svergognare il
Berlusca dandogli del golpista e ammonire Veltroni dall’accordarsi con
un ceffo di tal fatta. Il senso dello scoop è tutto qui.
È stato già
osservato che intrecci come quelli tra Rai e Mediaset sono all’ordine
del giorno nel mondo dell’informazione. Non bello, ma si fa. Il più
noto di questi inciuci fu organizzato proprio da Mauro, l’odierno
bacchettone. Era il 1992, ed Ezio sulla poltrona più alta della Stampa.
Fu lui, pare, a proporre ai suoi parigrado del Corsera, Paolo Mieli, e
della Repubblica, Eugenio Scalfari un patto di consultazione
permanente. Sul far della sera, la Trimurti si adunava in conciliaboli
telefonici per accordarsi sui titoli di apertura dei rispettivi
giornali e sulle notizie scomode da imboscare a pagina trentatré. Così
si sfornavano per il cappuccino dell’indomani, tre quotidiani uguali
come maritozzi. Il fine era dare una mano ai governi Amato e Ciampi o,
nel caso improbabile di qualche rasoiata, coprirsi a vicenda. A volte,
era della partita anche la pidiessina Unità, diretta da Walter
Veltroni. La faccenda - eguale se non peggiore a quella Rai-Mediaset -
andò avanti per un bel po’. Alla faccia della concorrenza virtuosamente
evocata da Ezio nel j’accuse del 22 novembre.
Mauro è un abilissimo
giornalista di 59 anni. Prima di dirigere Repubblica è stato vice di
Mieli alla Stampa e poi suo successore per quattro anni. Ezio è
innamorato del potere, ma anche della sua professione. Era ancora alla
Stampa, quando in piena notte la prima pagina dovette essere sbaraccata
per far posto a una notiziona appena giunta. Mauro e la redazione si
gettarono freneticamente nel lavoro. Compiuta l’impresa, Ezio esclamò
esaltato: «Ragazzi, ma non è meglio questo di una scop...ta?». «Parla
per te», fu la laconica risposta di un redattore.
Ezio è un
piemontese di Dronero che presto si trapiantò a Torino. Incline alla
sinistra per natura, frequentò però la scuola dai salesiani. L’impasto
ne ha fatto un cattocomunista dalla testa ai piedi. Debuttò come
giornalista alla Gazzetta del Popolo. Il quotidiano - ormai estinto da
un quarto di secolo - era allora nelle mani di Carlo Donat Cattin,
politico e sindacalista della sinistra dc. Nella direzione c’era il
figlio, Claudio, cui Ezio si attaccò facendogli da factotum. Nello
scrivere, il ragazzetto dimostrò subito due caratteristiche: zelo e
puntigliosità. Preciso, informato, senza voli. Ma la sua virtù
principale era la capacità di adattamento all’interlocutore. Se
intervistava l’allora sindaco comunista di Torino, Diego Novelli, gli
dava l’impressione di essere un compagno. Se parlava con Guido Bodrato,
allora potente dc piemontese, quello avrebbe giurato di trovarsi di
fronte a un chierichetto. Queste virtù camaleontiche furono poi il
viatico della sua bella carriera.
Dalla Gazzetta, Ezio passò dieci
anni dopo, nel 1981, alla Stampa. A inserirlo nell’universo Agnelli, fu
Marco Benedetto, l’amministratore del giornale. D’ora in avanti, Mauro
ne sarà il delfino. Fu Benedetto infatti - divenuto consigliere
delegato di Repubblica - a introdurlo anche nel quotidiano di Scalfari
alla fine degli anni ’80.
Della Stampa, Ezio divenne in breve una
star. Si trasferì a Roma e cominciò a frequentare Montecitorio come
cronista parlamentare. Sono gli anni dell’antagonismo tra il dc Ciriaco
De Mita e il psi Bettino Craxi. Se un giornalista aveva rapporti
cordiali con l’uno, con l’altro aveva chiuso. Ezio invece era in buona
con entrambi. A Ciriaco faceva credere di pendere dalle sue labbra, a
Bettino di essere la luce dei suoi occhi. Ma era solo innamorato di sé
e badava unicamente alla carriera. Fece un eccellente lavoro e divenne
capo della redazione romana.
Ogni tanto entrava in redazione col
viso sgualcito. I colleghi lo attribuivano a tenzoni amorose. Storie in
genere complicate e celebrali. Oggi, è separato dalla prima moglie e ha
un bimbo da una nuova compagna. Nonostante la vita ardita, Mauro è un
tipo di rigorose apparenze. Si ispira ai principi dell’azionismo
torinese, un tempo incarnato da Norberto Bobbio e Alessandro Galante
Garrone, entrambi vezzeggiati collaboratori della Stampa. In soldoni:
rigida austerità, ossequio al Pci e al sindacato, rifiuto per la
destra, disprezzo per Craxi, disgusto per Berlusconi. Il tutto in stile
piemontese falso e cortese. Tra questi punti fermi, il sobrio vestire
mutuato dalla galleria dei mitici direttori del XX secolo, gli
Albertini, i Frassati, i Missiroli. Il marchio di Ezio è la camicia
bianca, abbacinante e con bagliori, cui attribuisce un significato
etico di autorevolezza ed equilibrio.
Nell’88, presentato dal già
citato Benedetto a Scalfari, Ezio entrò a Repubblica con l’aureola di
direttore in pectore. In vista del salto, fu subito messo a fare grandi
cose. Andò come corrispondente a Mosca per seguire l’affossamento
dell’Urss intrapreso da Gorbaciov. Lievitò ogni giorno di più,
sommergendoci di sue interpretazioni sulla perestrojka. Una volta che
un suo articolo moscovita apparve su un mensile che ospitava anche un
ritratto irriverente di Scalfari, si indignò col direttore, Giordano
Bruno Guerri, più o meno con queste parole: «Come hai osato affiancare
la mia firma a quella porcheria, sapendo che un giorno succederò io a
Scalfari? Con te ho chiuso».
Dopo la Russia passò negli Usa, dove
fu cooptato nell’aurea cerchia del giornalismo italo-newyorkese dei
Furio Colombo, Gianni Riotta, Lucia Annunziata. Quando si sentì pronto
per la direzione, cominciò a sperimentarla con un improvviso rientro
alla Stampa come vice di Mieli nel ’90 e poi alla direzione. Finché nel
’96 si insediò finalmente alla testa di Repubblica scalzando, con
stupor del mondo, il settantaduenne Eugenio ancora pieno di linfa e di
vigore.
Ormai definitivamente romanizzato, il nostro simpatico
droneriano vive oggi in un attico dei Monti Parioli. Gli avvincenti
particolari dell’acquisto di questa magione sono stati raccontati dal
quotidiano Il Tempo, all’epoca in cui era diretto dall’eccezionale
Franco Bechis. La casa apparteneva ad Alberto Grotti, ex vice
presidente dell’Eni, fedelissimo del dc Arnaldo Forlani. Con
Tangentopoli, Grotti passò i guai suoi, fu incarcerato e ridotto sul
lastrico. Un giorno, Repubblica uscì col titolo: «Scoperto alle Bahamas
il tesoretto di Grotti». Grotti si ritenne calunniato e volle
querelare. Ma, non avendo più soldi per le spese legali, decise di
procurarseli vendendo la casa dei Monti Parioli. Incaricò della
faccenda il suo commercialista fissando il prezzo in 2,1 miliardi di
vecchie lire. Il primo a presentarsi come compratore fu Ezio. Così, per
uno straordinario caso della vita, Grotti ebbe dal direttore di
Repubblica i soldi per fare causa alla medesima. Non tutto però filò
liscio.
Con buona pace del moralismo azionista del petulante direttore.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.