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Ecco chi ha chiuso la Gioconda dentro una cassaforte di vetro

Suo padre vendette a Ferrero le prime 200mila vetrinette per esporre nei negozi l’antenata della Nutella. Lui è di casa al Louvre e al British Museum. Grazie alle teche blindate ampie come miniappartamenti

Ecco chi ha chiuso la Gioconda  
dentro una cassaforte di vetro

La grande fortuna di Alessandro Goppion, l’uomo che ha inventato le casseforti di vetro, è stata quella d’avere un padre che per primo piegò a suo vantaggio la più universale e insopprimibile delle debolezze umane: la vanità. «Finché esisteranno discendenti di Adamo ed Eva, ci sarà sempre la necessità di mostrare e di mostrarsi», soleva ripetere l’ingegner Nino Goppion, nato a Treviso nel 1918, partito come volontario per l’Africa orientale italiana nel 1936, deportato dagli inglesi in un campo di concentramento in Kenya nel 1941 e liberato soltanto nel 1948.
Il nonno di Alessandro, che di nome faceva Luigi ma da tutti era chiamato Minato e nessuno capì mai il perché, ebbe la sfortuna di rimanere vedovo tre volte. La quarta moglie, Maria, diede alla luce appunto Nino, spirito inquieto che avrebbe potuto come i fratellastri dedicarsi alla torrefazione del caffè Goppion, un marchio di nicchia tuttora assai apprezzato. Invece, tornato dalla lunga prigionia in Africa, preferì prima fare il poliziotto a Roma, poi l’ingegnere presso l’Anglo-Iranian oil company e infine il direttore di una vetreria a Milano.

Nino Goppion nel 1952 si mise in proprio e aprì a Porta Genova un laboratorio specializzato in vetrine, senza rendersi conto che stava importando una materia fino ad allora sconosciuta in Italia, l’exhibit design. Uno dei suoi primi clienti fu Giovanni Ferrero, che aveva preso in mano le redini dell’omonima industria dolciaria fondata dal fratello Pietro. «S’incontravano in osteria ad Alba», rievoca Alessandro Goppion. «Mio padre mi raccontava che Ferrero per tener su i pantaloni usava uno spago al posto della cintura. Fu durante una delle loro interminabili partite a briscola che l’imprenditore gli ordinò la bellezza di 200.000 vetrinette promozionali per esporre nei negozi la Pasta Gianduja, il Sultanino, il Cremablok, la Cremalba e la Supercrema, l’antenata della Nutella».

L’idea di passare il resto della propria vita a mettere in bella mostra i Mon Chéri non poteva però scaldare il cuore a Goppion junior. Il quale, mentre era prossimo alla laurea in scienze politiche alla Statale di Milano, la città dov’è nato nel 1955, fu costretto dal padre a lasciare a metà la tesi per accorrere in azienda a dare una mano. E così, trent’anni fa, ecco l’intuizione che a partire dal Bargello di Firenze ha reso Alessandro ricercatissimo da musei, case regnanti, governi, ministeri, biblioteche, istituzioni culturali: la cassaforte di vetro in cui racchiudere il meglio delle civiltà apparse finora sulla faccia della Terra. E cioè una teca antiproiettile a prova di attentati, furti, atti vandalici, incendi, terremoti, sbalzi termici, umidità, sorgenti luminose, agenti chimici, polveri.
Dentro questi microambienti stabili e sicuri, che solo un’esplosione nucleare riuscirebbe a dissolvere, Goppion ha collocato, come in altrettanti tabernacoli, i tesori dell’umanità che nessuno potrebbe comprare perché non hanno mai avuto prezzo: dalla Gioconda alla Venere di Milo, dall’Ultima Cena leonardesca nel refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie a Milano alla Dama con l’ermellino nel Czartoryski museum di Cracovia, dal David di Michelangelo ai gioielli della Corona britannica nella Torre di Londra, dal Codice di Hammurabi (282 leggi promulgate dal re di Babilonia sul trono dal 1792 al 1750 a.C., incise a caratteri cuneiformi su una stele, il più antico corpus di diritto penale, civile e commerciale) ai Manoscritti del Mar Morto (i rotoli risalenti al periodo fra il II secolo a.C. e il 135 d.C., scoperti casualmente nel 1947 in 11 grotte di Qumran, che hanno impresso una svolta agli studi biblici).
Quando le opere di Leonardo da Vinci, ma anche di altri maestri della pittura, escono dall’oscurità dei caveau o devono essere trasportate da una città all’altra per un’esposizione straordinaria, trovano sempre a proteggerle una cassaforte di vetro costruita su misura per loro da Goppion, 50 dipendenti, dai 15 ai 20 milioni di euro l’anno di fatturato a seconda delle commesse. È stato così per l’Uomo vitruviano custodito nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia, per il Codice Atlantico conservato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, per il Codice Leicester che Bill Gates acquistò nel 1994 da Armand Hammer, per il San Benedetto di Antonello da Messina, per la Donna allo specchio di Tiziano Vecellio che il Louvre ha prestato fino a giovedì scorso al Comune di Milano affinché potesse essere visto gratuitamente dal pubblico a Palazzo Marino così com’era avvenuto col San Giovanni Battista di Leonardo nel 2009 e con la Conversione di Saulo di Caravaggio nel 2008.
Anzi, sovente sono i capolavori che, grazie ai brevetti di Goppion, si trasformano essi stessi in casseforti. Per esempio fa una certa impressione vedere l’imprenditore che stacca dalla cornice il Cristo morto di Andrea Mantegna esposto nella Pinacoteca di Brera, apre le serrature blindate sul retro, scosta di 90 gradi la tela come se squadernasse la pagina di un libro e s’affaccia con testa e busto nella teca invisibile interponendosi fra il vetro e il dipinto del Nazareno adagiato sulla pietra del sepolcro.
Miracoli che accadono solo nel Laboratorio museotecnico Goppion di Trezzano sul Naviglio, un’anonima officina nel fuligginoso hinterland milanese, l’unico luogo un po’ dimesso frequentato dal mago del vedo-e-non-vedo, ormai di casa come fornitore dal Louvre al Musée de l’Armée a Parigi, dal British museum al Victoria & Albert museum a Londra, dalla Bibliotheca Alexandrina di Alessandria d’Egitto al museo d’arte islamica del Cairo, da Palazzo Pitti a Firenze all’Israel museum di Gerusalemme, dal museo dell’Acropoli di Atene ai musei archeologici di Delfi e Olimpia.

Sicuro d’averli citati tutti?
«Come faccio a ricordarmeli? Finora sono più di 300 musei in quattro continenti».

 


«Ecco, dimenticavo il più importante, il Museum of fine arts di Boston. Fra le sue 450.000 opere ha in dote anche Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?, la più grande tela di Paul Gauguin, dipinta nel 1897 a Tahiti dall’artista francese prima di tentare il suicidio. Il 20 novembre abbiamo inaugurato l’ampliamento progettato dall’architetto Norman Foster. È costato 504 milioni di dollari. Quattro anni di lavoro».

Che altro?
«Il 23 ottobre è stato riaperto a New York, rinnovato e ampliato, il National museum of the american indian. Fa parte della Smithsonian institution, amministrata dal governo degli Stati Uniti. Non s’è ancora ben capito chi fosse il fondatore, un ingegnere minerario che fece una donazione in epoca vittoriana. Oggi è la più grande collezione del pianeta. Vanta un patrimonio di 142 milioni di reperti conservati in 19 musei negli Usa e altri 140 affiliati sparsi nel mondo, più 9 centri di ricerca. Abbiamo curato la sezione Infinity of nations, che ha segnato la riconciliazione degli americani con le tribù indiane. Ho preparato anche la vetrina per la giacca di Cavallo Pazzo, il condottiero sioux che insieme con Toro Seduto sconfisse i cavalleggeri del comandante George Armstrong Custer nella battaglia di Little Bighorn. È un capino d’abbigliamento di gran moda, secondo me».

Ha tenuto il conto dei metri quadrati di cristallo che ha posato fino a oggi?
«Saranno non meno di 50.000. Inclusa la teca Ardabil nella Jameel gallery di arte islamica del Victoria & Albert museum di Londra. La più grande vetrina che sia mai stata realizzata dall’uomo: 62 metri quadrati. In pratica è un miniappartamento del peso di 3 tonnellate, che ho costruito per proteggere un tappeto persiano del 1539 steso sul pavimento. Non ci sono porte per entrare, solo un sofisticato sistema di sollevamento che all’occorrenza stacca la teca dal suolo».

Che spessore hanno i suoi cristalli?
«Dipende. Come minimo 12 millimetri. Quelli della Torre di Londra oltre 30. D’altronde devono difendere anche il Koh-i-Noor, “montagna di luce” in lingua hindi, il celeberrimo diamante da 108 carati incastonato nel diadema di platino che fu realizzato nel 1937 per la consorte di Giorgio VI, madre dell’attuale regina Elisabetta II. C’erano state minacce di attacchi da parte dei terroristi dell’Ira. L’Mi5, il servizio di sicurezza britannico, venne qui a Trezzano a prelevare i prototipi dei cristalli e cercò di farli esplodere con delle microbombe in un hangar di Londra. Prova superata. Tre anni di lavoro. Sotto le teche, dotate di motori per alzarle e abbassarle, abbiamo costruito un corridoio blindato di cemento armato. Su 50 imprese arruolate, eravamo gli unici stranieri. Al nostro arrivo, il Sun, il tabloid più diffuso, si chiese polemicamente perché i tesori della Corona fossero stati messi nelle mani dei mafiosi italiani. Quando lasciammo il cantiere, tutte le maestranze inglesi erano schierate sull’attenti a brindare con noi».

Avrà riservato le stesse precauzioni alla Monna Lisa di Leonardo.
«Di più. È il simbolo della Francia, quindi soggetta ad attentati. Da quando poi Dan Brown nel Codice da Vinci s’è inventato che l’esame ai raggi X rivelerebbe un collegamento fra la Gioconda e la dea Iside, ci sono migliaia di persone che entrano al Louvre solo per vedere quella. Otto milioni di visitatori l’anno producono un flusso incredibile di alito, una quantità d’acqua spaventosa. Per non parlare dei flash. Sarebbero vietati, ma se ne sparano lo stesso a milioni, sembra l’albero di Natale, i guardiani ormai si sono rassegnati. Così ho creato un’interparete staccata dal muro, con una teca dotata di cristalli antiriflesso, apribile in un secondo in caso d’incendio, e una lastra d’acciaio retrostante».

Di che spessore?
«Non posso rivelarlo. Notevole, comunque. Se esplode una bomba, si salva la Gioconda e muoiono i turisti. Mi spiace dirlo, ma è così».

Fa una certa impressione.
«Mio padre si annoiava con i musei, sosteneva che gli facevano perdere tempo. Per me invece sono una missione verso la collettività, oltre che un luogo di profitto. Non lavorerei di sabato o di notte se non avvertissi l’utilità sociale del mio lavoro. È da qui che traggo l’energia per andare avanti. La teca è un concentrato di tecnologia impercettibile. Nessuno s’è accorto, per esempio, che dallo scorso 3 dicembre il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, al Museo del Novecento di Milano, è protetto da una membrana di vetro posta a un metro e 80 di distanza dalla tela su un binario a scorrimento. Nella teca ci deve essere tutto, ma non si deve vedere niente. Allo stesso modo le opere d’arte vanno protette da tutto e dal contrario di tutto. Anche dall’esistere. Ci pensi: se le chiudessimo al buio in una camera blindata, sarebbe come se non fossero mai state create. È solo il fatto di risultare percepibili dall’occhio umano che le fa esistere. Ma in quello stesso attimo la luce, il calore, l’umidità e persino i sentimenti delle persone cominciano a deteriorarle».

Si riferisce ad atti come quello di Vincenzo Peruggia, ex impiegato del Louvre che nel 1911 se ne uscì dal museo con la Gioconda sotto il cappotto, convinto che il dipinto dovesse ritornare in Italia? O dell’ungherese Laszlo Toth, che nel 1972 colpì con 15 martellate La Pietà di Michelangelo nella basilica di San Pietro?
«Sì. Due anni fa una turista russa ha scagliato una tazza di tè contro la Gioconda, ma la dama leonardesca dentro la teca Goppion non ha fatto un plissé».

Cala la rata assicurativa dopo che un’opera d’arte è stata messa in sicurezza?
«Penso che molti musei, dopo il nostro intervento, disdicano le polizze».

Le chiavi chi le tiene?
«I direttori dei musei. Li mando dal nostro fornitore di fiducia e se le ordinano da soli. Io non voglio nemmeno vederle».

Furti su commissione: ha elaborato un identikit psicologico del suo nemico?
«Bisogna prima chiedersi che utilizzo può avere un’opera non commerciabile, dal valore inestimabile. La risposta viene di conseguenza. Il collezionista non mostra agli amici. Il suo è un atto di puro dominio. Il collezionista non condivide: possiede e basta».

Dunque è il collezionista maniaco il principale pericolo?
«No. È il consumismo esasperato di massa».
Sogna che i musei restino vuoti?
«Al contrario. Li sogno pieni di gente, però accompagnata in visite che non hanno nulla a che vedere con due orette di mordi e fuggi».
Quale lavoro l’ha emozionata di più?
«Il Newseum di Washington. È il museo delle notizie. Accanto a un pezzo delle Torri gemelle e ai primi testi sulla libertà di stampa, ogni anno vengono aggiunte le foto dei giornalisti uccisi in giro per il mondo. Sono già 2.078, 53 soltanto nel 2010, fra cui l’italiano Fabio Polenghi, il fotoreporter freelance che ha perso la vita a Bangkok durante gli scontri fra esercito thailandese e camicie rosse. Un memoriale di indumenti insanguinati e auto di servizio sforacchiate dai proiettili. Nelle teche abbiamo predisposto molti posti liberi, purtroppo».
Sbaglio o lavora più all’estero che in Italia?
«Non sbaglia. Al 90 per cento. In Italia si pensa che la cultura sia un accessorio del turismo. Nel mondo la cultura serve a educare i cittadini, i quali poi generano ricchezza perché ne sono capaci. Il British museum fu creato per insegnare ai funzionari del regno come gestire le colonie».
Perché dal Veneto siete venuti a fare tutto questo in Lombardia?
«Mio padre scelse il lavoro, non il luogo».
Non è una fantastica arroganza quella di pretendere che opere create dall’uomo possano essere destinate con l’aiuto di Goppion all’immortalità? Prima o poi finirà anche l’enigmatico sorriso della Gioconda.
«Ma certo. Tutto passa. Ma il mio compito è preservare per le generazioni future. Un dovere morale. Come il non lasciare debiti. Certo, per farlo bisogna essere convinti che queste opere abbiano un valore».
Quando si trova davanti a un capolavoro, vorrebbe sfiorarlo oppure proteggerlo? Insomma, qual è il primo pensiero che le passa per la testa?
«Oh Dio, me toca a mi!».
(525. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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