La questione è molto semplice: quali sono i confini tra una critica legittima all’interno di una organizzazione politica e una posizione di rottura. Quando Gianfranco Fini, e con lui alcuni esponenti del Pdl, fanno dichiarazioni contro la linea politica, le uscite, le priorità dell’agenda scritta da Silvio Berlusconi, si mettono fuori dal partito o esercitano legittimamente la facoltà di critica all’interno dello stesso? È evidente che la risposta non sia affatto neutra e univoca.
Se si considera l’atteggiamento dell’attuale opposizione parlamentare a Berlusconi (quella di Bersani e Di Pietro), le dichiarazioni di Fini e dei suoi non possono che essere rubricate come dialettica all’interno della stessa matrice politica. Ciò avviene per comparazione e non in termini assoluti. Fini e i finiani non possono essere opposizione, perché tale si può definire in Italia solo quella che non accetta l’esistenza stessa del premier.
Quando si immagina invece un’opposizione costruttiva, la cui essenza di vita non sia la negazione stessa della legittimità di Berlusconi a governare, be’ allora in questo caso la posizione di Fini & co che altro è se non vera e propria opposizione? Cerchiamo di essere ancora più chiari. Oggi l’opposizione a Berlusconi, considera il premier alla stregua di un dittatore: nelle dichiarazioni pubbliche che si fanno e negli atteggiamenti parlamentari. La storia dell’opposizione a Berlusconi passa sostanzialmente sempre per una radicale posizione di intolleranza verso il premier scelto dal popolo. Diciamo meglio, illegittimità a governare del presidente del Consiglio nonostante il consenso popolare. Agli albori c’è stato il tema del conflitto di interesse che lo avrebbe dovuto rendere ineleggibile, poi le questioni giudiziarie che lo avrebbero dovuto rendere non adatto a governare e infine la questione femminile che lo avrebbe dovuto rendere «malato» e distratto. Insomma l’opposizione si è spesso caratterizzata (non tutta certo) per un’indisponibilità a discutere, ad accettare il berlusconismo. Con una tale radicalizzazione dell’opposizione è evidente che Fini ha poco a che fare.
Ma il punto è proprio questo. In un Paese normale l’opposizione accetta la sconfitta e, si perdoni il gioco di parole, la governa. Non si rende indisponibile al dialogo, non considera geneticamente (antropologicamente disse qualcuno) infrequentabile la maggioranza. L’opposizione in un Paese normale fa esattamente ciò che abbiamo visto fare ieri a Fini.
Si alza, si accomoda il microfono, sfodera la migliore eloquenza (e la peggiore cravatta) e dice in faccia a chi governa che sono stati commessi errori, si sono fatte scelte inopportune. Fini ieri non cercava un dibattito all’interno del partito, ma pensava a una discussione all’interno del Parlamento. In un Paese normale quando un leader politico contesta l’alleanza politica fondante di una compagine di governo (il rapporto con la Lega, nel nostro caso) si mette autonomamente sui banchi dell’opposizione.
Sia chiaro in questo ragionamento non c’è alcun giudizio di valore. Il punto non è tanto quello di discutere su chi ha ragione, ma sul metodo di fare politica. Ieri Fini, per essere chiari fino alla banalità, non ha chiamato un grande congresso, ha rivendicato una posizione politica alternativa a quella della Pdl.
L’incredibile stato dell’opposizione italiana fa sì che oggi un vero leader dell’antiberlusconismo lo si individui all’interno del movimento berlusconiano. E che il dispiegarsi della critica politica e di governo si pretenda di confinarla in una sede di un partito e non già nel Parlamento, come prevederebbe la Costituzione.
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