Controcultura

Ecco i nuovi Anni Venti (ed è passato solo un secolo)

Cento anni fa il mondo si stava a fatica risollevando da una catastrofe. Vogliamo farlo ancora

Ecco i nuovi Anni Venti (ed è passato solo un secolo)

Come sarebbe svegliarsi negli anni Venti, come in quel film di Woody Allen, Midnight in Paris? Fitzgerald, Hemingway, Picasso, Einstein, il jazz, i turbanti, Breton, i dada, la Shakespeare & Company... No, no, non bisogna sognare all'indietro, bisogna sognare in avanti: eccoci, negli anni Venti ci siamo già, anche se il Novecento non smette di tenerci ancorati; eppure gli anni Venti, quelli nuovi, sono nostri e (quasi) ancora tutti da vivere. La pandemia se n'è già portato via uno (e che anno...), ma una decade si apre davanti a noi, e porta proprio lo stesso nome di quell'era mitica, l'età del jazz, del divertimento, degli scrittori immortali, dei ribelli non finti, dell'intensità della vita dopo il macello della Prima guerra mondiale. Però anche noi siamo reduci da uno sconvolgimento totale, il mondo si lecca le ferite del corpo e dell'anima e l'esistenza potrebbe, forse, non essere più la stessa. Oggi si può davvero immaginare di Svegliarsi negli anni Venti come nel libro di Paolo Di Paolo (Mondadori, pagg. 180, euro 18) e riflettere su noi stessi, come suggerisce l'autore: «Una serie di interrogativi rimbalzano da un secolo all'altro - fra quegli anni Venti e questi - e sono rivolti all'essere umano che ha avuto o ha il destino di attraversarli».

Come l'uomo di cui parla Franz Werfel nell'esergo del libro, «appartenere a due mondi, abbracciare con un'anima sola due epoche, è una condizione veramente paradossale», e allora ci si può muovere fra Siri e Mann, Alexa e Kafka, gli aperitivi vietati e il vecchio Monet. Con una domanda, che resta alla fine: «Che cosa ti aspetti dai tuoi anni Venti?». È quello che abbiamo chiesto a otto figure del mondo culturale italiano che, nelle pagine che seguono, hanno firmato un intervento speciale per il Giornale: Nuccio Ordine, Piersandro Pallavicini, Eugenio Borgna, Federico Nati, Veronica Pivetti, Matteo Rovere, Enrico Ruggeri e Patrizia Sandretto Re Rebaudengo.

L"utile" prenderà il sopravvento. Ma i più saggi...

Non mai è facile azzardare previsioni. Ma nel prossimo decennio intravedo pericoli per il futuro dell'istruzione sempre più subordinato al mondo del mercato e dell'impresa. La tendenza dominante a far credere agli studenti che lo studio serva soprattutto a imparare un mestiere mi pare allarmante. Scuole e università sono nate per formare donne e uomini liberi, dotati di senso critico. Professionalizzare eccessivamente i corsi di studi, significa creare fuorvianti gerarchie tra discipline utili (quelle richieste dal mercato) e inutili (quelle prive di immediati sbocchi occupazionali), riducendo progressivamente la cultura di base dei nostri allievi. La proposta di Google che mira a baipassare le università esalta questa inclinazione: offrire corsi (con poche spese e in pochi mesi) che permettano di acquisire un diploma in grado di garantire lavoro. Gli stessi ostacoli si intravedono nel campo della ricerca scientifica: i laboratori costretti a trasformarsi in distributori automatici in cui le aziende mettono soldi per selezionare prodotti che desiderano. E chi finanzierà la ricerca di base (libera da ogni pressione utilitaristica) che per secoli ha rivoluzionato la storia dell'umanità? Chi formerà professionisti colti? Vedremo crescere la dittatura delle multinazionali della tecnologia: una folle corsa, in nome del consumismo, alla rottamazione del vecchio e all'acquisto del nuovo. Vedremo diffondersi un'inedita solitudine: chiusi in una stanza, muniti di avanzati dispositivi, potremo studiare, lavorare, ordinare cibo e libri, illuderci di coltivare in rete relazioni umane. Ma vedo anche, per fortuna, un'umanità saggia opporsi, con forza, a queste derive!

*Nuccio Ordine insegna Letteratura italiana all'Università della Calabria. È autore de Gli uomini non sono isole (La nave di Teseo) e L'utilità dell'inutile (Bompiani, tradotto in 32 Paesi).


Un'indigestione (molto noiosa) di libri moralisti

In settembre la Academy of Motion Pictures ha pubblicato le linee guida che, dal 2024, un film dovrà rispettare per poter essere candidabile agli Oscar. Tra cui: avere tra i protagonisti almeno un attore di un gruppo etnico sottorappresentato, oppure una trama imperniata su temi che riguardino donne, non bianchi, LGBTQ+, disabili. In sintonia, l'influente critico cinematografico Richard Brody ha da poco elencato sul New Yorker i suoi 36 migliori film del 2020. La stragrande maggioranza sarebbe perfetta per un Oscar con le nuove linee guida, ma non è soddisfatto. Semplifico: li trova poco impegnati. Esempio: secondo lui preferiscono «a good story over what's really happening». Ma sto parlando di film e Stati Uniti. In Italia e con i libri è diverso? Per ora sì. Lo resterà negli anni 20? Temo di no. Si legga temo con tono particolarmente accorato. Ho questa idea romantica, o ingenua, che si debba essere liberi di scrivere quel che ci pare, le cose più abiette e quelle più frivole, le più amorali e le più candide, ma purtroppo l'onda moralista partita dagli Usa è già arrivata sin qui. Cancel culture, Indignazione Istantanea Impettita, accuse fuori luogo di sessismo: presenti. Oltre a far malissimo al ripensamento critico del passato, all'analisi ragionata delle cose, alla buona causa della parità di genere, queste avvelenano l'aria, filtrano nella testa di chi scrive, lo frenano: mi pubblicheranno se scrivo per dire una storia di maschi bianchi altoborghesi che se ne fregano del prossimo godendosi i loro soldi, e non li condanno? Questo potrebbe trovarsi a pensare uno scrittore, e addio al potenziale Italian Psycho. Insomma, mi aspetto un decennio di indigesti romanzi moralisti. Anche se spero che qualche editore si stufi e pubblichi solo delinquenti, anticonformisti, umoristi tristissimi dentro.

*Piersandro Pallavicini è scrittore e professore di Chimica all'Università di Pavia. Il suo romanzo più recente è Nel giardino delle scrittrici nude (Feltrinelli).

I musei saranno le piazze di un'arte pubblica e digitale

A Londra, sulle rive del Tamigi, l'8 dicembre scorso ha aperto Unreal City, un grande festival di arte in Augmented-Reality, curato da Daniel Birnbaum. Le opere di artisti come Olafur Eliasson, Cao Fei, Alicja Kwade, Tomás Saraceno e molti altri, si snodano lungo South Bank e sono immagini virtuali, visibili con un'app gratuita. Nell'arte il futuro è sempre al lavoro. La prossima generazione di artisti sarà quella dei nativi digitali: sapranno muoversi con naturalezza fra virtuale e In Real Life, utilizzando le tecnologie cutting-edge spero con sensibilità, ingegno, poesia. La pittura, la scultura, la performance continueranno a svolgere una funzione essenziale, di ancoraggio alla materia e al corpo, accrescendo quella straordinaria teoria di figure, di forme e di gesti che è la storia dell'arte. Sempre di più e al di là del medium, gli artisti saranno chiamati a misurarsi con la complessità degli eventi, esercitando la loro capacità indisciplinata di insistere sulle zone di confine, mostrandoci i contrasti e le sfumature che attraversano le questioni culturali e di genere, i temi della convivenza e dei conflitti, delle memorie controverse, delle emergenze ambientali. L'arte sarà sempre più pubblica: saprà cioè produrre nuovi tipi di spazi e di discorsi pubblici. La sua presenza nel dominio del digitale, incrementata durante la pandemia, ha innescato una ridefinizione delle geografie del mondo dell'arte e delle sue istituzioni, nazionali e internazionali, pubbliche e private, musei, gallerie e fiere. Nei prossimi anni cercheremo un nuovo equilibrio, sperimentando la programmazione in presenza e online per arricchire, su entrambi i fronti, l'accessibilità alle opere, alle mostre, ai laboratori, al dibattito. Alla dimensione individuale e immersiva del digitale, sono certa corrisponderà l'esperienza collettiva, fisica e civica del museo, uno spazio destinato a mio parere a diventare una piazza centrale della futura contemporaneità.

*Patrizia Sandretto Re Rebaudengo è presidente della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, che sostiene i giovani artisti.

Una scommessa: (re)impadronirci delle nostre vite

Per gli ottimisti saranno gli anni della ripresa, per i pessimisti quelli del crollo definitivo. Come quasi sempre accade, quello che succederà sarà una via di mezzo: certo, i poveri aumenteranno e i ricchi (quelli veri) accresceranno ancora il loro patrimonio. Altre attività chiuderanno, altri imprenditori si arrenderanno: come già accaduto, l'Italia non ce la farà, ma gli Italiani sì, sopravvivranno, come sono sopravvissuti a due guerre (più una guerra civile), a terremoti, dittature e epidemie, come la terribile influenza spagnola che fece milioni di morti. La vera scommessa, però è un'altra: quando riusciremo di nuovo a impadronirci della nostra vita? Quando ricominceremo a starci vicino, a condividere, a sorridere assieme? Se oggi aprissimo le gabbie in uno zoo gli animali rimarrebbero ore, giorni forse, senza uscire, timorosi di una libertà che non conoscono più. La vera scommessa, quando finalmente butteremo via le mascherine e potremo di nuovo guardare le espressioni dei nostri volti, sorridere, magari addirittura abbracciarci e baciarci, sarà questa, riuscire a superare la diffidenza nei confronti del prossimo, oggi visto solo come potenziale untore. Se perderemo noi verranno sconfitti soprattutto i nostri figli, che stanno vivendo in silenzio, chiusi nelle loro stanze davanti a un computer, una situazione che si ripercuoterà sul loro futuro, dopo aver vissuto disabituati al contatto e al confronto. Stiamo pagando un prezzo altissimo, quello di rinunciare a vivere per la paura di morire. Ora che sembra di intravedere la luce in fondo al tunnel dobbiamo trovare dentro noi stessi, quando tutto sarà finito, la forza per tornare a convivere tra anime, magari rileggendo il passato e migliorandolo: abbiamo davanti una grande occasione, non buttiamola via chiudendoci nelle nostre ataviche paure. Buona fortuna a tutti, spero di rivedere presto in giro i vostri sorrisi.

*Enrico Ruggeri è cantante, cantautore e scrittore. Il suo libro più recente è Un gioco da ragazzi (La nave di Teseo).


La pandemia ha segnato il nostro futuro

Prima di pensare a come sarà la nostra vita nei prossimi dieci anni, possiamo chiederci: come è cambiata la nostra vita dal 2010 a oggi? E, prima ancora, ci sono stati decenni contrassegnati da cambiamenti emozionali e culturali così profondi rispetto ad altre epoche? In fondo, direi che nessuno degli avvenimenti degli ultimi anni ha avuto l'impronta drammatica o rivoluzionaria che ha trascinato con sé la pandemia. Essa segna, io credo, il cambiamento più profondo fra un decennio e l'altro, in quanto si tratta di una rivoluzione non solo biologica e virale, ma della più profonda, radicale e sconvolgente, paragonabile soltanto a quando, negli anni Quaranta, la guerra cambiò completamente il nostro modo di vivere.
La pandemia ha cambiato il nostro modo di vivere e cambierà quello del prossimo decennio. Le ansie e le paure che abbiamo vissuto hanno causato una impronta emozionale e determinato un tale sconvolgimento affettivo e biologico, da indurci a pensare che i prossimi dieci anni saranno diversi, poiché ansie e paure saranno formate da quel drago dell'oblio che finora non c'è stato, sommerso dalle immagini della realtà della morte e della malattia. Quelle ansie e quelle paure saranno sempre dentro di noi, ma non con il fulgore della terribile realtà dei mesi vissuti.
Se penso alle parole che nei prossimi anni saranno capaci di parlare al cuore dell'uomo e della donna non posso non pensare a solitudine, isolamento, nostalgia di un tempo più felice e poi, certo, anche se l'esperienza trasformerà il suo modo di manifestarsi camaleontico, la paura, che sarà l'ultima frontiera, e resisterà negli anni a venire. E poi, l'ultima parola, cuore, perché i grandi pensieri o vengono dal cuore, oppure muoiono.

*Eugenio Borgna, psichiatra, ha pubblicato numerosi libri con Einaudi e Feltrinelli. Il 14 gennaio uscirà I grandi pensieri vengono dal cuore. Educare all'ascolto (Raffaello Cortina).


Origine e destino dell'universo ci stupiranno...

Da sempre osserviamo il firmamento interrogandoci sul cosmo, ma è solo dagli anni '20 che abbiamo iniziato a rispondere a domande quali: «come è fatto l'universo?», «da quanto tempo esiste?», «come sarà in futuro?» utilizzando strumenti in grado di registrare i segnali provenienti dal cielo e interpretandoli con le leggi della fisica moderna.
Nel 1920 venne osservato che la luce delle stelle può essere deflessa dalla gravità; nel 1929 venne misurata l'espansione dell'universo: in quel decennio si misurarono sperimentalmente gli effetti della teoria della Relatività Generale di Einstein, pubblicata pochi anni prima, gettando così le basi per l'idea del Big Bang e per la sconvolgente scoperta che il cosmo è in evoluzione. Nacque cioè la cosmologia sperimentale, accompagnata da un mutamento radicale della consapevolezza che l'uomo ha dell'universo che lo circonda.
A cento anni da quelle scoperte, sulla vetta di un vulcano di 5200 metri nel deserto di Atacama, stiamo costruendo il più grande osservatorio al mondo per misure di cosmologia. Oggi siamo in grado di dire con molta più precisione come è nato il nostro universo, come si è evoluto e quale potrebbe essere il suo destino. Vediamo letteralmente la sua origine, con avveniristici telescopi e sensori raffreddati alle più basse temperature raggiungibili in natura. Ma le conseguenze che accompagneranno le nostre osservazioni nei futuri anni Venti potrebbero essere altrettanto sconvolgenti, perché sono tanti gli aspetti della natura che ancora non conosciamo e non capiamo, al punto che potremmo essere costretti a rivedere molte delle nostre convinzioni.

*Federico Nati è astrofisico all'Università di Milano Bicocca. Con i più avanzati telescopi studia le origini dell'universo, l'evoluzione del cosmo e la nascita delle stelle, come racconta nel libro L'esperienza del cielo. Diario di un astrofisico (La nave di Teseo).

Unire le forze per un cinema internazionale

Il cinema continuerà ad essere un'attività fondamentale per il nostro sistema culturale. Gli autori e i produttori dovranno offrire al pubblico linguaggi nuovi e punti di vista originali su ogni aspetto della realtà, anticipando il futuro. Immaginando quello più prossimo, quando arriva un trauma vero, come quello che stiamo vivendo in questi mesi di distopia assoluta, gli intellettuali sono chiamati ad affrontare la complessità. Sinceramente però non so se sapremo essere all'altezza della generazione di autori che seppe contribuire alla ricostruzione culturale e identitaria del nostro Paese dopo la Seconda guerra mondiale.
C'è però un dato comune ed è la forza della sala, su cui continuo a credere fermamente. Il cinema è la forma più sintetica che abbiamo per raccontare il mondo e dobbiamo cercare di arrivare a quante più persone possibile. Occorre dunque pensare al pubblico, reinventarci e puntare a un cinema diverso, allargato, che sia in grado di avere un percorso internazionale. Per questo spero che possa nascere una realtà produttiva italiana in grado di affacciarsi con determinazione sui mercati internazionali. C'è spazio, secondo me, anche per un progetto che veda più case di produzione unire le forze per muoversi in scenari più ampi e sempre più competitivi. Immagino anche un futuro con più donne alla regia, attualmente sono meno del 10 per cento. In Groenlandia abbiamo creato una divisione tutta dedicata alla regia femminile. Penso che sarà un'interessante occasione artistica oltre che una nuova opportunità di produrre film. I primi progetti sono già partiti e li presenteremo presto. Il futuro è donna.

*Matteo Rovere è regista di film come Gli sfiorati e della serie Romulus. Con Groenlandia ha prodotto la saga Smetto quando voglio di Sydney Sibilia con cui ha lavorato in L'incredibile storia dell'Isola delle rose (Netflix). Prossimamente uscirà il film di Gianluca Jodice su D'Annunzio Il cattivo poeta.

Più che desideri, l'incoscienza per essere felici

I miei prossimi anni Venti? Non posso dire cosa mi aspetto da loro, anzi, non voglio. Non voglio perché i desideri sono un recinto e io amo la libertà. L'imprevisto è impagabile. Doloroso a volte, a volte esaltante. Ma, anche se le nubi sono un'ipotesi probabile quanto il sole, non riesco a concepire una vita programmata, nemmeno in teoria. Già, perché se il futuro mi sconvolgesse? Se mi dimostrasse che la mia ottica era angusta, minuscola, limitata?
Un po' di esperienza ce l'ho, ho vissuto abbastanza per aver fatto uno, due, tre bilanci. Ho aggiornato continuamente, più del computer. Farò tesoro di ciò che so, ovvio, ma mi farò largo nel domani con quel tanto (tantissimo) d'incoscienza che mi è indispensabile per essere felice. Come diceva quel tale: «Mi interessa molto il futuro, è lì che passerò il resto della mia vita», perciò apro le braccia, chiudo gli occhi e aspetto l'onda. Può darsi che, col mestiere che faccio, mi sia inevitabile credere fermamente nei punti di domanda, nutrirmi dell'imprevisto. Un'idea, però, la butto lì. Un pensiero su quello che non mi aspetto nei miei prossimi anni Venti.
Non mi aspetto (anzi, scongiuro) l'ulteriore alienazione dei rapporti umani, sempre più inariditi dall'abuso della tecnologia.
Non mi aspetto (anzi, scongiuro) l'aumento ipertrofico dell'ego, nostro cannibale compagno di viaggio.
Non mi aspetto (anzi, scongiuro) l'incomprensione fra i sessi che porta morte e dolore, dolore, dolore.
Non mi aspetto (anzi, scongiuro) la paura nei confronti di tutti quelli che non sono me.
Non mi aspetto (anzi, scongiuro)... non lo so. Mi fermo. Sarebbe già tantissimo poter non aspettarsi queste poche cose, fondamentali. Per i desideri c'è sempre tempo.

*Veronica Pivetti è attrice, regista, conduttrice e scrittrice. È in onda ogni sabato sera a Le parole della settimana su Raitre.

In estate Mondadori pubblicherà il suo nuovo romanzo.

Commenti