Ecco come i pm hanno salvato Gianfranco e famiglia

L'hanno indagato il giorno della richiesta di archiviazione. E non hanno sentito né lui né il cognato. Le carte arrivate alla farnesina da Saint Lucia hanno spiazzato la Procura. Che non le aveva richieste

Gian Marco Chiocci - Massimo Malpica

Non è che bisogna pensar male per forza. Ma se si mettono a confronto i fatti, la disparità di trattamento fra Berlusconi e Fini è palese. Prendete Montecarlo. Il presidente della Camera e soprattutto suo cognato, Giancarlo Tulliani, parti attive e reticenti dell’affaire, non sono mai stati, dicasi mai, sentiti dagli inquirenti. Né come indagati né come persone informate sui fatti. Comportamento a dir poco inusuale quello dei pm romani, che a verbale si sono preoccupati di ascoltare soggetti vicini all’ex presidente di An ma non colui che un ruolo nel pasticciaccio monegasco l’ha comunque ricoperto. A dirla tutta Fini è stato poi iscritto nel registro degli indagati, ma fuori tempo massimo. E a differenza di quel accade solitamente durante le inchieste «politiche», la notizia dell’iscrizione non è trapelata.
Come mai? E come mai è stato iscritto a modello 21 per il reato di truffa insieme al tesoriere Francesco Pontone (lui sì, invece, costretto a sfilare a piazzale Clodio) solo al momento di richiedere l’archiviazione? Visti gli scivoloni dell’ex delfino di Almirante, i maligni pensano che a Fini sia stato evitato l’imbarazzo dell’interrogatorio per due ordini di motivi: da indagato, avrebbe potuto avvalersi della facoltà di non rispondere o anche di mentire, ma in entrambi i casi ne sarebbe uscito a pezzi. Come testimone, invece, sarebbe stato obbligato a dire la verità, e in caso di menzogna sarebbe finito sotto processo per falsa testimonianza. E così il cognato. Salvati tutti e due, dunque, dall’incriminazione e dalla gogna mediatica.
Un modo di procedere curioso soprattutto verso Giancarlo Tulliani. Lui suggerisce a Fini di vendere l’immobile, lui è «in contatto» con la società off-shore che acquista la casa da An, lui da inquilino supervisiona i lavori di ristrutturazione, ed è in contatto anche con la seconda società off-shore proprietaria dell’immobile dove il giovane vive in affitto. Diciamo «soprattutto» alla luce di quanto riportato ieri dal Corriere della sera sulla convinzione dei magistrati romani che la proprietà dell’appartamento sia del celeberrimo cognato. C’è da chiedersi inoltre perché la procura di Roma fece trapelare la notizia che il famoso contratto d’affitto scovato dal Giornale con le due firme identiche nella parte del proprietario e dell’affittuario, riportava invece «due firme diverse». Finiani e giornali sinistri inveirono contro la macchina del fango, salvo poi essere sonoramente smentiti dagli stessi pm che nell’atto di chiusura indagini confermarono che le firme erano identiche. A dimostrazione che l’affittuario e il proprietario (e viceversa) erano la stessa persona. Sul punto la procura non s’è preoccupata di disporre una perizia calligrafica, che invece il Giornale commissionò a due esperti. Di più. I pm si sono mossi in modo anomalo: dapprima con due rogatorie su Montecarlo per sapere se il prezzo di vendita dell’immobile era stato «congruo» o meno. A detta delle toghe era fondamentale capire se la casa era stata svenduta. Ma quando la risposta delle autorità monegasche è arrivata sul tavolo del procuratore capo Ferrara s’è capito che per Fini si sarebbe messa male: l’appartamento acquistato dalle società off-shore di Saint Lucia, secondo stime dell’epoca ricostruite dall’associazione degli agenti immobiliari di Monaco, era stato venduto a un valore tre volte inferiore rispetto alle stime di mercato. Sembrava finita per il presidente della Camera. E invece, a sorpresa, dopo aver sprecato tempo e denaro per svolgere accertamenti approfonditi ipotizzando il reato di truffa (rogatorie a Montecarlo, perquisizioni nella sede del partito in via della Scrofa) improvvisamente le toghe capitoline si sono rese conto che quanto fatto fin lì non andava fatto essendo palese la «non competenza penale» a indagare trattandosi, invece, di materia da codice civile. «Qualsivoglia doglianza sulla vendita prezzo inferiore - scrivevano i pm - non compete al giudice penale ed è eventualmente sanzionabile nella competente sede civile...». E ancora. La procura, in un suo comunicato, s’è preoccupata di mettere nero su bianco lo stato «fatiscente» dell’appartamento basandosi esclusivamente sulle parole di persone vicine al presidente della Camera (il deputato Donato Lamorte e altri) e non su quanto riferito in senso inverso da altri testimoni oculari che in quell’appartamento ci sono stati di persona. Perché? E perché l’ufficio del procuratore Ferrara non ha sentito il bisogno di ascoltare le persone che pubblicamente hanno dato la loro disponibilità a confidarsi con la magistratura (il titolare della Tecabat che svolse i lavori di ristrutturazione, gli impiegati del mobilificio che vendettero la cucina Scavolini a Elisabetta e Gianfranco, l’imprenditore Garzelli in possesso di clamorose mail inviate dalla compagna di Fini, e così via)? Perché la procura non ha approfondito il giallo delle altre richieste d’acquisto dell’immobile, documentate dalla stessa autorità giudiziaria e confermate dal tesoriere Pontone, a cui il partito non ha dato seguito? Prendendo in prestito il pensiero corrente riassunto dal sito Dagospia, stavolta è andata a segno «l’infallibile ricetta di piazzale Clodio: domande non fare, risposte non avere».

Questo spiegherebbe la sorpresa dei vertici di piazzale Clodio alla notizia dell’arrivo, via Farnesina, delle conclusioni delle indagini del ministero della giustizia di Saint Lucia che incastrerebbero definitivamente Giancarlo Tulliani: «Ma noi mica le abbiamo richieste...».

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