Ecco i totem laici di Anish Kapoor

Una monografica che sorprende e ipnotizza. E che sfida uno spazio già perfetto

Ecco i totem laici di Anish Kapoor
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«Non ho nessun messaggio da offrire. L'arte, come la poesia, deve rimanere sulla soglia dei significati», ci dice Anish Kapoor, pantaloni scuri e giacchetta verde, mentre usciamo da Palazzo Strozzi di Firenze dove ha appena confezionato la sua nuova mostra italiana, un originale dialogo tra le sue opere, alcune storiche altre recenti, e gli spazi squisitamente rinascimentali dell'edificio. Otto stanze e il cortile sono ora completamente destrutturati dall'artistar nato a Mumbai e di stanza a Londra (ma la sua seconda casa, e sede della sua Fondazione, è a Palazzo Manfrin di Venezia, al Cannareggio) diventato celebre per le ardite composizioni (come «il fagiolo», scultura ormai simbolo della città di Chicago), per gli interventi pubblici (al Rockfeller Center di New York, davanti al Guggenheim di Bilbao), per le mostre che fanno il botto di visitatori (come la retrospettiva alle Gallerie dell'Accademia, durante la Biennale d'Arte del 2022) e per aver acquisito i diritti del nero più nero che c'è, il Vantablack, un materiale confezionato in laboratorio e capace di assorbire il 99,9 per cento della luce visibile.

Con l'intelligenza di chi da sempre vive a cavallo di culture diverse (la madre è ebrea irachena) e la vitalità di chi, a 69 anni ben portati, prende per mano un nuovo, giovanissimo (e italiano) amore, Anish Kapoor ha sfidato il rigore di Palazzo Strozzi per regalarci un contemporaneo rinascimento basato su diverse proporzioni auree. Qui, infatti, tutto è «Untrue Unreal», inverosimile e irreale, come recita il titolo della suggestiva monografica, ben curata da Arturo Galansino, direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi (da domani al 4 febbraio, catalogo Marsilio Arte). Questa a Firenze è senza dubbio una Kapoor-exhibition, con numerosi lavori che gli appassionati hanno già visto altrove, eppure non difetta di sorprese. A cominciare dal cortile: al centro di questo spazio geometricamente perfetto, Anish Kapoor, con non poca fatica da parte dello staff, ha fatto erigere il suo personalissimo Void Pavilion VII, il padiglione del vuoto, che in realtà è fatto di pieni. Si entra in questa stanza tinta di un bianco abbagliante, intensa come una visione, e si scorgono tre squarci neri, profondi, nel muro: «Perfetta per la meditazione», dice il maestro. A noi è preso un senso di vertigine.

È fisica, materiale, e attiva tutti i sensi, l'arte di Anish Kapoor che da anni ha messo insieme una squadra capace di confezionare meraviglie: come altro chiamare, infatti, Svayambhu, un lavoro del 2007 qui adattato allo spazio, una sorta di monolite di cera rossa che si muove lentissimo su due binari e che penetra, quasi violentandole, nelle porte rinascimentali del primo piano? Il rosso (ma guai a dire che è un colore indiano, Kapoor mal sopporta le geolocalizzazioni) domina nelle prime sale, dove spicca Endless Column, la colonna infinita ideata agli inizi degli anni Novanta e qui debordante sul soffitto e sul pavimento. Al centro del percorso, le sculture in Vantablack (una, per la tossicità del materiale, è anche chiusa nella teca): cambiano forma a seconda di come le si guardi, sono dei gorghi che ci ipnotizzano. Superata la fase carnale della sala successiva (con al centro l'installazione sessualmente allusiva A Blackish Fluid Excavation e una serie di corpose sculture color cremisi) si arriva al salone degli oggetti specchianti, vero marchio di fabbrica dello scultore Kapoor che qui si diverte a sorprendere i visitatori con tre installazioni che ingigantiscono, rimpiccioliscono e ribaltano la visione. «Non è un gioco per fare i selfie: dietro ogni opera c'è un lavoro di alta tecnologia e basta un piccolo graffio per rompere l'incantesimo», avverte, mentre lui stesso si dedica a foto-ricordo.

Di questa mostra fiorentina va sottolineato il coraggio, quasi la strafottenza: lo scultore-architetto non ha avuto paura di confrontarsi, anzi di fare a pugni, con uno spazio così connotato, in sé già perfetto.

Destabilizzando tutte le proporzioni, ci ha condotto dentro le sue visioni alternative, proponendoci ora momenti di pausa-meditativa ora climax di assoluta sensualità. Nel finale, Anish Kapoor rimane sul limine, lasciando a noi la risposta al quesito ultimo: che cosa mi resterà di questo viaggio?

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