di Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo
Sono bastati solo tre giorni al tribunale del Riesame di Napoli per riscrivere l’inchiesta di Bari e per demolire l’indagine lampo della Procura di Napoli su Gianpaolo Tarantini e Valter Lavitola. Tre giorni appena per decidere, in rapida successione, che il premier Silvio Berlusconi dev’essere essere indagato, a Bari, per aver indotto Gianpi a mentire sulle serate a Palazzo Grazioli e per stabilire unilateralmente che il Presidente del Consiglio sapeva che le giovani donne presentategli dall’imprenditore pugliese erano escort. Anche se questa certezza, negli atti giudiziari di Bari, non è mai emersa.
E pensare che il tribunale del Riesame avrebbe dovuto pronunciarsi sulla competenza del fascicolo (già inviato a Roma dal gip Amelia Primavera) e, soprattutto, sulla richiesta di revoca delle misure cautelari a carico degli indagati, come da istanza della difesa (Alessandro Diddi, Ivan Filippelli e Gaetano Balice). Alla fine, i giudici hanno rivoltato il procedimento napoletano come un calzino e, incrociando gli indizi vesuviani con quelli baresi, hanno scritto che sì, Berlusconi sapeva tutto. Come hanno fatto a intuirlo i giudici? Da una intercettazione con Patrizia D’Addario, «dalla quale emerge che, a differenza di quanto le aveva anticipato Gianpi in una precedente telefonata, la donna, pur avendo trascorso la notte in compagnia del presidente Berlusconi, non aveva ricevuto alcuna busta, ma soltanto la promessa di un suo interessamento affinché fosse sbloccata la situazione amministrativa di un cantiere ove la stessa stava realizzando opere edilizie». Versione stranota alle cronache, ma che per il Riesame di Napoli nasconderebbe la consapevolezza del premier di avere a che fare con prostitute, nonostante mai – nella fase delle indagini preliminari – i pm baresi avessero ipotizzato un simile scenario.
Le toghe puntellano la loro ricostruzione analizzando anche le modalità con cui sono stati scelti i legali di Tarantini. «Le promesse, le dazioni e le altre utilità» fornite da Silvio Berlusconi a Gianpaolo Tarantini, scrive il tribunale del Riesame, «accompagnano nel tempo le cadenze della complessa vicenda giudiziaria processuale dell’imprenditore barese, indiscutibilmente idonea a porre in pericolo l’immagine pubblica dell’autore stesso delle pretese liberalità». «Promesse, dazioni e altre utilità», sottolineano ancora i giudici, «iniziano in epoca coeva al momento in cui Tarantini assume la qualità di indagato a Bari, con l’individuazione, da parte dell’avvocato Niccolò Ghedini, dell’avvocato D’Ascola quale difensore dell’imprenditore».
Ma «si intensificano e ricorrono ad ogni passo dell’indagine potenzialmente idonea a vedere il medesimo Tarantini chiamato a rendere dichiarazioni dinanzi all’autorità giudiziaria, coinvolgono le stesse nomine dei difensori (con la successiva nomina dell’avvocato Perroni in sostituzione del collega D’Ascola) e culminano nel momento in cui l’indagato potrebbe, con una richiesta di patteggiamento, contribuire a “stendere un velo”, quanto meno temporaneo, su notizie e fatti che avrebbero destato sicuro clamore mediatico, in ragione del coinvolgimento, nella vicenda relativa alle cosiddette escort, del presidente del Consiglio, soggetto dal quale provenivano tutte le elargizioni».
La ricostruzione del Riesame riprende, quasi in toto, un ragionamento della Procura: e cioè che Tarantini, scegliendo il patteggiamento, avrebbe potuto «mettere il silenziatore» alla vicenda giudiziaria, impedendo la divulgazione di intercettazioni ritenute compromettenti. Una valutazione discutibile, che non tiene conto che insieme a Gianpi risultano indagate altre otto persone. Quindi, l’eventuale scelta di un rito alternativo da parte del solo Gianpi non avrebbe assicurato la censura dei brogliacci scottanti. Eppure, nonostante questa evidenza, i giudici hanno ritenuto che Berlusconi abbia comunque garantito 14mila euro al mese e un maxi-stanziamento da mezzo milione di euro a Tarantini per indurlo a rilasciare false dichiarazioni all’autorità giudiziaria di Bari e convincerlo a scegliere così il patteggiamento.
Il paradosso, però, sta nel fatto che se Berlusconi ha «aggiustato», secondo le toghe, le dichiarazioni di Gianpi, quest’ultimo – pur avendo mentito – per i giudici non è «punibile». In pratica, si cerca di colpire il presunto suggeritore, e cioè il premier, ma non chi, davanti ai pm, avrebbe materialmente dichiarato il falso, e cioè Tarantini. Quanto a Lavitola, i giudici liquidano la sua posizione – confermando la misura cautelare a suo carico per l’ipotesi originaria, quella di estorsione – parlando di un «elevatissimo rischio di recidiva specifica, desumibile dalla gravità dei fatti in contestazione ma anche dalle peculiari modalità esecutive del reato, avendo l’indagato dimostrato la propria capacità di continuare a delinquere pur trovandosi dall’altro capo del mondo».
E la moglie di Tarantini, Nicla? La mamma di due bimbe piccole che è stata arrestata e tenuta una notte in cella e che ha trascorso quasi un mese ai domiciliari? Per il Riesame è «totalmente estranea all’unica fattispecie di reato che il Collegio ha ritenuto configurabile». Insomma, con la presunta estorsione e con il presunto intralcio alla giustizia non c’entra proprio nulla. È stata arrestata per sbaglio. Cose che capitano. A Napoli.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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