Politica

Ecco perché la Lega vuole i soldati a casa

di Gilberto Oneto

Le affermazioni di Bossi vanno sempre interpretate in relazione al clima politico e nell’ottica dei problemi interni al suo partito. Spesso sono infatti seguite da smentite, retromarce, puntualizzazioni, ritrattazioni, precisazioni...
Oltre al solito «parlare a nuora perché suocera intenda», questa volta, a proposito del ritiro dall'Afghanistan, Bossi sembra però voler interpretare il pensiero profondo del suo popolo, ma anche degli autonomisti che leghisti non sono o non sono più, e di molti altri.
Questo spiega la continuità di atteggiamento sulla spedizione in Irak del 1993, sulla Serbia, e su ogni altra occasione in cui la Repubblica italiana ha partecipato a spedizioni militari internazionali.
Gli autonomisti hanno queste posizioni da sempre, che sono identiche per tutti i movimenti e partiti del mondo, con qualche motivazione in più tutta italiana, anzi padana.
Vediamole.
In generale fra gli autonomisti prevale l’idea che ognuno dovrebbe avere il diritto di farsi i fatti propri, anche le peggiori nefandezze se queste non danneggiano qualcun altro. È insito nell’autonomismo il principio della totale podestà a casa propria e il conseguente sospetto (peraltro spesso motivato) che dietro alle operazioni umanitarie si nascondano interessi o volontà di prevaricazione.
A questo si aggiunge una certa simpatia emotiva per i piccoli, anche per quelli che difendono le proprie specificità e identità in forma non sempre commendevole ma contro avversari potenti o grandi coalizioni. È un atteggiamento che si è mostrato con chiarezza nella guerra di tanti prepotenti uniti contro la Serbia e nel prevederne le disastrose conseguenze.
Le spedizioni militari sono operazioni che gravano sulle tasche dei contribuenti e per le quali non si vedono vantaggi concreti, anzi se ne vedono solo per altri. E gli autonomisti, soprattutto quelli padani, sono molto sensibili al destino dei propri soldi.
Nel caso specifico dell’Afghanistan, pur mostrando i leghisti (ma non solo) un diffuso fastidio nei confronti del mondo islamico, aggravato dai comportamenti degli immigrati musulmani, non capiscono perché si debbano spendere risorse per cercare di sistemare a casa altrui cose insistemabili, invece che impiegarle per difenderci a casa nostra: fa più paura uno sgozzatore di figli vicino che un talebano lontano.
Infine si teme che le spedizioni militari siano solo un altro tentativo di affermazione del nazionalismo italiano: la storia recente della penisola è piena di invenzioni di nemici esterni e lontani per risolvere o mettere in sordina problemi interni, o per riaffermare una traballante unità. Si tratta di operazioni fatte con notevoli dosi di cinismo: si pensi alle migliaia di poveracci mandati a morire in Crimea in una guerra che non li riguardava e solo per permettere a un geniale politicante, il Cavour, di sedersi fra i potenti del mondo. Oppure alle avventure coloniali, o al grande e inutile macello della Grande guerra che avrebbe dovuto forgiare gli italiani nelle trincee. La sindrome di Crimea e del Carso è forte fra gli autonomisti ed è giustificata. Puntualmente infatti anche oggi la giusta commozione per i soldati morti viene strumentalizzata in senso patriottico in un parafernale di vessilli, inni, retorica, labari, corone e di tutto il funereo apparato di cui l'italianità da sempre si circonda.
Può anche darsi che la richiesta di Bossi possa essere letta come la solita fuga italiana dagli impegni internazionali. È un problema che riguarda gli incrollabili sostenitori di ruoli e destini maschi e imperiali: a lui si deve riconoscere di avere chiesto il ritiro da molto tempo prima che i morti gli dessero ragione.


Oggi la posizione di Bossi è inappuntabile: liscia il pelo ai suoi, si riavvicina agli autonomisti fuori dalla Lega e cerca facile consenso nel partito del mammismo, il più grande partito italiano.

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