La campagna di Libia non ci ha mai entusiasmato. È stata una scommessa azzardata. Una guerra decisa tra Washington, Londra e Parigi sull'onda di emozioni avventate, informazioni sbagliate e interessi estranei, se non contrari, a quelli del nostro Paese. Una guerra priva di guida politico militare combattuta per favorire un'entità ribelle senza spessore militare capace, inizialmente, di portare alla frammentazione il Paese. Ma per cambiare il volto di una guerra bisogna parteciparvi. E l'Italia lo ha fatto. Dopo aver segnalato il proprio disagio, dopo aver fatto capire con informazioni d'intelligence precise e dettagliate che il Colonnello Muammar Gheddafi era ben lontano dal cadere si è schierata con i suoi alleati. Lo ha fatto sin dalla fine di febbraio quando la no fly zone era ancora un'utopia. Ha continuato a farlo dopo il 19 marzo giocando, pur senza partecipare ai bombardamenti, un ruolo diplomatico e negoziale fondamentale.
Mettendo a disposizione le conoscenze del regime e dei suoi avversari l'Italia ha contribuito a cambiare l'immagine della guerra. Anche perché i fatti hanno continuato a darle ragione. Il raìs dato per agonizzante ha resistito prima agli assalti dei ribelli e poi ai raid aerei che dovevano spingere gli insorti verso Tripoli. Ai primi di aprile Washington ha messo a terra i propri bombardieri, Londra e Parigi hanno incominciato a cercare una via d'uscita dalla palude libica. Le buone e inascoltate ragioni dell'Italia sono apparse, a quel punto, evidenti. Riabilitata a pieno titolo, l'Italia ha da una parte costruito un proficuo rapporto politico con i ribelli di Bengasi e dall'altra negoziato discretamente per convincere il Colonnello a lasciare la Libia. Ma era troppo tardi. L'ostinazione paranoica di Gheddafi ha reso impossibile una sua uscita di scena indolore trasformandolo in un indifendibile cadavere politico. In questa complessa situazione l'Italia è riuscita a tagliare i ponti con il raìs, ma anche a tener aperto un esile filo negoziale con Tripoli per individuare possibili alternative future.
Nel frattempo l'Eni ha creato - con alcune riservatissime missioni di riavvicinamento a Bengasi - le premesse per continuare ad attingere al petrolio e al gas libico. Mentre mettevamo a punto questi aggiustamenti politici, economici e strategici la guerra è arrivata alla svolta cruciale. Approfittando della debolezza di un'Alleanza Atlantica logorata dallo stallo politico militare, la Cina ha incominciato a giocare in contropiede favorendo le mosse del Colonnello, facilitando il movimento e lo sblocco dei fondi di denaro depositati sui conti esteri del regime, chiudendo gli occhi sulle transazioni di denaro usate per pagare armi, munizioni e mercenari. La Nato si è ritrovata a far i conti con l'incubo d'un conflitto senza fine, prossimo a spaccare l'Alleanza e a favorire i disegni di una Cina che guarda al petrolio libico per alimentare i suoi disegni di nuova potenza coloniale d'Africa. Il Pentagono è tornato, allora, a dir di sì alla guerra. La Nato ha messo sul tavolo i piani per eliminare il raìs e chiudere la partita in gran fretta. In questo cruciale frangente all'Italia, riabilitata e rivalutata, è stato chiesto di far la propria parte.
In questo frangente il nostro governo ha deciso di dire di sì ai bombardamenti. Non farlo equivaleva a compiere un pericoloso, inutile e pernicioso passo all'indietro. Equivaleva ad abbracciare il cadavere di un raìs senza più prospettive, rinunciando a qualsiasi possibilità di manovra sullo scacchiere libico.
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