«Ecco perchè siamo ancora una metropoli per principianti»

«Ecco perchè siamo ancora una metropoli per principianti»

R icordate Stourley Kracklite? Chi lo ricorda alzi la mano. «Io! - Io! - Io!». Eh già, difficile dimenticarlo: è l’architetto più famoso e peggio messo della storia del cinema. Peter Greenaway lo ha gettato in una Roma carnale, torrida e polverosa, dove il tormentato e idealista Stourley non riesce a realizzare come vuole la sua mostra sull’amato collega Boullée, viene tradito dalla moglie (incinta di lui) con un giovanotto volgare e promettente e, non bastasse, viene infine informato da un medico - in una scena straziante e delicatissima - che morirà di cancro proprio di questi tempi, a giugno. E a Stourley non resta che scrivere, su cartoline rubate nei vagabondaggi tra rovine antiche e afa, brevi pensieri che poi «spedisce» a Boullée, scomparso due secoli prima. L’inesorabile suicidio finale è scenografico quanto commovente. Che Il ventre dell’architetto sia metafora non solo del destino di Kracklite, ma pure di quello dell’«ultima disciplina ancora perfettamente rinascimentale»? Insomma, quale futuro per l’architettura, in questi tempi un po' troppo prosaici? Lo abbiamo chiesto a Gianni Biondillo, architetto e scrittore che domani alle 21 allo Spazio Oberdan presenterà, insieme a Mario Botta e Fulvio Irace, il suo ultimo libro: Metropoli per principianti (Guanda, pagg. 210, euro 12).
In che senso Milano è una metropoli per principianti?
«Viviamo le metropoli italiane come se fossero le città di cinquant’anni orsono. Siamo cittadini inconsapevoli di metropoli di sette milioni di abitanti, come Milano, che è una città “rete” che non si ferma a Sesto, ma prosegue verso la Svizzera o verso Bergamo. Eppure continuiamo a vivere le metropoli come se fossero piccoli comuni: ne parliamo con termini vecchi - come periferia, centro, campagna - senza accorgerci che questa terminologia non ha più senso. Dovremmo parlare di città rete o città lineari, come quelle emiliane. Davanti alle nostre metropoli, invece, siamo tutti ancora principianti».
Innanzitutto, prima architetto o prima scrittore?
«Dovessi tenere fede alla carta d’identità, architetto. Se guardo quanto tempo mi ruba un’attività sull’altra, scrittore. Come al solito la vita sceglie per me, io me ne accorgo dopo delle cose che mi capitano addosso. Scrivere, comunque, per me “è” progettare. Di certo in Italia è più facile trovare un editore che un committente importante».
Qual è la sua posizione sui discussi futuri grattacieli milanesi?
«Non sono contrario alle novità e in fondo la più antica tradizione milanese è quella di cambiare continuamente pelle. Però alcuni di questi progetti li trovo non solo avulsi, non solo evidenti operazioni di speculazione edilizia, ma brutti per il loro profondo disinteresse ai caratteri urbani e per le ricadute che avranno sulla città».
Avere 20 anni a Milano. Prendendo spunto da Francesca, protagonista del suo «Per sempre giovane»: tutto inizia o tutto finisce?
«Milano si disinteressa di chi è fuori dal ciclo della produzione. S’è dimenticata degli anziani e dei bambini. Sembra quasi che non esistano. Accetta con fatica i giovani. I quali, invece, vivono la città al meglio. Non perché la città sia generosa, ma solo perché loro hanno vent’anni. E tutte le ragioni per non rovinarseli».
Osserviamo l’Italia, guardando fuori dal finestrino durante un lungo viaggio in auto. Che tipo di paese vede?
«Una nazione che per troppo tempo ha vissuto sugli allori del “paese più bello del mondo”. Nel frattempo si è deturpato coste, colline, fiumi, centri storici. Ora ci illudiamo d’essere ancora un paese attraente, mentre siamo egoisti e indifferenti all’ambiente e al futuro. Resistono luoghi di bellezza autentica, ma per quanto ancora?»
Lei scrive: «La città reale è palinsesto, punto di partenza, luogo di mutamento, cantiere. L’esperienza del passato può aiutare a ipotizzare scenari, ma nulla di più». Perché?
«Il passato è un deposito che deve essere interpretato in funzione dei tempi e non pedissequamente copiato. Ciò che oggi consideriamo “bello” non lo era quando nacque.

I centri storici che oggi ammiriamo, cento anni fa li avremmo voluti demolire! Chi decide, e per chi, cosa è bello e cosa no? Cerchiamo di fare cose utili per la socialità. E lasciamole fare a chi conosce nel profondo il mestiere. Lasciamo che non sia il mercato a decidere per noi, perché disegnare città è una attività sociale prima che imprenditoriale».

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