U no sketch dice tutto. Università di Yale, 18 marzo 1948. Lui ha 68 anni, è alto, robusto, elegante. Ha con sé una cartella, piuttosto gonfia. La apre. «Vede, qui dentro tutto è in ordine», dice al suo accompagnatore, Louis Martz. «Qui ci sono le pratiche di assicurazione dei coltivatori, qui c’è la mia conferenza e alcune poesie che voglio leggere. Tengo le due cose del tutto separate». Tenere le cose separate e in ordine è il pensiero fisso di quest’uomo. Poi sale sul palco della sala universitaria. La sala è piena di gente. Non c’è il microfono. «Di solito non era necessario. Fu un errore», ricorda il fido scudiero. L’uomo sussurra. Una donna alzò la mano, chiese al poeta di alzare la voce. Lui risponde, «proverò, signora, proverò». E abbassa la voce. Il silenzio, calibrato come un bisturi. La folla che omaggia Wallace Stevens, l’uomo che «dopo la sua morte, avvenuta nel 1955, fu riconosciuto come il poeta della sua era ed eclissò Eliot, Pound e William Carlos Williams» (questo è Harold Bloom, lo zar della critica letteraria from Usa). Terminata la lettura, gli organizzatori del convegno si avvicinano a Stevens, gli allungano l’assegno da 150 dollari. «E con questo cosa ci faccio?», risponde Stevens, che ha miracolosamente ritrovato la verve. «Non accetto compensi per le mie poesie. Datelo a qualche causa meritevole».
E se ne va. Tenere le cose separate è il suo cruccio, il suo genio. I soldi da una parte, per la vita; la poesia da un’altra, per l’eternità. «La storia che Mariani racconta in oltre 400 pagine potrebbe essere riassunta in 400 parole», ha scritto Adam Kirsch sul The Atlantic parlando di The Whole Harmonium, la biografia di Wallace Stevens compilata da Paul Mariani, uno che di poeti se ne intende (ha compilato devote e informate biografie di Gerard Manley Hopkins, Hart Crane, William Carlos Williams), per Simon & Schuster (pagg. 480, $ 30). Non si tratta di un corrosivo sfottò: Wallace Stevens, discendente di olandesi trapiantati sulla costa americana nel Settecento, nasce a Reading, Pennsylvania, il 2 ottobre del 1879, fa le elementari in un istituto luterano, ad Harvard conosce George Santayana, si laurea a New York nel 1903, nel 1916 si trasferisce a Hartford, Connecticut, dove è assunto da una delle compagnie di assicurazioni più importanti degli Usa, di cui diventerà un super dirigente. A inframmezzare la noia, il matrimonio con Elsie Kachel, nel 1909 – eccitazione sorgiva, ben presto convertita in tedio coniugale – da cui ha una figlia, Holly, che si ribella al conformismo materno, se ne va di casa, lascia gli studi e sposa un tecnico di origini polacche. «Wallace Stevens è insondabile. Come se serbasse un segreto custodito morbosamente negli antri del sonno, si trasforma di giorno in un giudice inattaccabile, con abito e martelletto, capace di metterti in soggezione»: così Marianne Moore, che pubblicò le prime poesie di Stevens su The Dial, parla del poeta a William Carlos Williams. Autore aristocratico e cristallino, «il principe dell’impersonalità cara ai modernisti, alieno all’autobiografismo, insondabile, gelido nelle perfette costruzioni verbali» (così Massimo Bacigalupo, curatore, nel 2015, del benedettissimo «Meridiano» Mondadori che raduna Tutte le poesie del poeta americano), Stevens è il Plotino statunitense, una Emily Dickinson realizzata compiutamente nel corpo di un uomo che sembra pensato da Alfred Hitchcock, un poeta schifiltoso fino al paradosso e al parossismo (invitato a una lettura con W.H. Auden, Allen Tate e Lionel Trilling, rifiutò perché «avrebbe dovuto passare la notte fuori casa»). Il mistero di Wallace Stevens, che di giorno era un potente, efficace assicuratore e di notte scriveva poesie che avrebbero cambiato per sempre la letteratura americana (la prima raccolta, Harmonium, è del 1923, ma l’opera di Stevens, poeta dall’energia sfrenata, migliora invecchiando, l’Opus Posthumous, infatti, è perfetto), è consustanziale al suo genio lirico. Bastano due esempi a scassinare l’enigma. Primo. Nella poesia Americana Stevens sbalza in versi assoluti «uno che si guarda nello specchio e trova/ che è l’uomo nello specchio quello vivo, non lui./ Egli è l’immagine, il secondo, l’irreale,// l’astrazione. Abita in un altro uomo». Secondo. Nel saggio, pubblicato nel 1942, Il nobile cavaliere e il suono delle parole, Stevens scrive che il poeta contemporaneo «dovrà astrarsi e al tempo stesso astrarre la realtà, attirandola nella propria immaginazione». Il poeta, insomma, è l’elusivo all’eccesso, ciò che si ritrae dalla realtà perché attratto da una realtà ulteriore. Stevens ha rispecchiato l’esistenza che la vita ha pensato per lui: attraversando lo specchio dell’esistente ha scoperto la poesia. Sembra esserci un sinistro mutismo – un mutevole battibecco – tra la vita e la poesia, tra il regno di questo mondo e il poeta. «Ma è a Key West che Stevens andava, ogni anno, per fuggire dall’egida del quotidiano». Lì, nell’avita Florida, il poeta che amava tenere tutto in ordine e non confondeva la vita professionale con l’istinto estetico, incontra Robert Frost, altro poeta capitale (del quale in Italia non c’è più nulla di disponibile, editori provvedete) e soprattutto Ernest Hemingway. Proprio a Key West, nel 1936, dopo qualche bicchiere di troppo, accade «una delle più importanti scazzottate della letteratura americana». Stevens, ubriaco netto, insulta Ernest. Si menano. Il poeta le piglia ma non soccombe. Torna a casa, pieno di gloria, con una mano rotta e un occhio pesto, e chiede a Hemingway di mantenere un degno riserbo sull’incidente. Il romanziere accontenta il poeta. Piglia carta e penna e scrive a un amico. «Vuoi sapere come menava Stevens? Come quelli che gonfiano i muscoli e tirano fendenti davanti allo specchio del bagno, sperando di far fuori il proprio superiore». Al contrario, nel 1942, Stevens si impegna perché a Hemingway venga fornita una cattedra universitaria per insegnare poesia: «è il più significativo dei poeti viventi per quanto riguarda il tema della Attualità Straordinaria», scrive a Henry Church. Stevens, lietamente repubblicano, probabilmente cattolico in punto di morte, ha scritto la più bella poesia del Novecento su Ulisse («Guidò la barca/ sotto le stelle medie e disse:/ Qui provo l’umana solitudine/ e ciò che, in spazio e isolamento/ è la conoscenza: mondo e sorte,/ il diritto in me e intorno a me,/ congiunti in un vigore trionfante») e «rifiuta l’opinione che l’arte è gioco, propaganda o cerimonia.
Per lui la poesia è un mezzo per conoscere la verità» (Hayden Carruth). Questa aurea ovvietà è presa da molti, ancora, come un indigesto abisso. Quanto a voi, fidatevi di Stevens, il poeta dalla vita anonima e ordinata, che covava millenni e rivoluzioni nella propria mente.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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