Ecco come ritrovarci nella perdita

Traccia: «Il distacco nell'esperienza ricorrente dell'esistenza umana: senso di perdita e di straniamento, fruttuoso percorso di crescita personale»

Confesso a codesta spettabile Commissione, o a chiunque mi stia leggendo, di aver nutrito un grave dubbio di fronte a questa traccia, così come davanti all'altra, quella coi versi del sommo Ungaretti (alternativa da incubo, con le sue larve e ninfe e piogge pigre di dardi e pecore e vergini. O pecore vergini, quelle che fanno la famosa lana?). E il dubbio era quello di trovarmi di fronte a due testi scritti in una lingua straniera, o criptati, tanto arduo mi riusciva trovarvi un qualche senso logico. Mi sono grattato a lungo la testa, cercando di stimolare i neuroni, e compatendo i miei «colleghi di maturità». Alla fine ho capito che questo cascame concettuale dev'essere un frammento di una lirica più vasta, forse dello stesso Ungaretti e forse di qualche altro poeta minore, di cui mi spiace non conoscere il nome per poterlo maledire. Ma dico, ma perché mai l'esistenza umana sarebbe «un’espressione ricorrente?» E poi quei «senso di perdita, straniamento», che sembrano i sintomi di una malattia, cosa c'entrano con un «fruttuoso percorso di crescita personale» che sembra uscito dal discorso di commiato di un dirigente Rai? Più che uno svolgimento verrebbe voglia di scrivere una querela. A parte questo, a parte tutto, credo che in materia di distacco la parola definitiva l'abbia detta il poeta inglese Alfred Tennyson, quando parlando del dolore per la perdita di un giovane amico scrisse «dell'interesse remoto delle lacrime» («the far-off interest of tears»): «ma chi potrà, prevedendo il futuro, intravedere un qualche guadagno nella perdita, o, allungando la mano verso i giorni a venire, cogliere l'interesse remoto delle lacrime?». Detto questo, detto tutto. Personalmente ritengo che il distacco faccia bene, tanto da intravedere nella latitanza una condizione privilegiata dell'essere umano. «Non aver casa, né affetti, di colpo mi sembrò una cosa naturale», scrisse più o meno un altro poeta che amo, Philip Larkin. Lo scrittore Bruce Chatwin, che una qualche chiesa del lontano futuro, ritrovandone le ceneri e le parole, farà senz'altro santo (e che non può rivoltarsi nella tomba perché è stato cremato), dal canto suo riteneva che la condizione naturale dell'Uomo fosse il nomadismo. Il non aver fissa dimora, secondo i saggi, eviterebbe, oltre che l'Ici, quel senso di attaccamento alle cose che rallenta o inibisce l'evoluzione spirituale dell'individuo. Il distacco da tutto, e da tutti, diventa insomma un trampolino di lancio verso mete più alte. Non avere affetti è però impossibile. Una volta, da bambino, morto un gatto giurai che mai più mi sarei affezionato a un animale. Poi col tempo ho imparato che, se capita, ci si può anche affezionare alle cose e alle persone; l'importante è sapere che tutto è transitorio, imparare ad accettare che, come scrisse Clive S. Lewis, «il dolore di oggi fa parte della felicità di ieri». Ma davvero chi ha concepito e proposto questo tema voleva sentirsi dire cose del genere? Ci ho pensato a lungo.

Poi alla fine ho capito: l'estensore della traccia è in realtà un epigono di Dan Brown, e in quelle 17 parole (diciassette, vorrà dire anche questo qualcosa?) è probabilmente nascosto - sotto ferrea crittatura - il senso della vita, dell'amore e dell'universo. Solo che io non l'ho trovato.

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