di Massimo Malpica
e Gian Marco Chiocci
Non c’è figlio che tenga, per Antonio Di Pietro. Con Cristiano finito sui giornali per le chiacchiere e i favori chiesti al telefono all’ex provveditore Mario Mautone, il leader Idv ha tenuto botta. Lui, da sempre strenuo difensore delle intercettazioni come strumento di indagine, non ha cambiato linea nemmeno quando nel tritacarne mediatico ci è finito l’erede. Certo, è anche vero che un uccellino avvertì Cristiano di smettere di parlare con Mautone, tanto che il figlio, stando all’informativa della Dia, a metà di una telefonata troncò la conversazione, e per mesi e mesi cessò ogni contatto con il funzionario. Quello, Mautone, resta sotto ascolto, l’altro, Cristiano, non più.
Detto questo, va dato atto a Di Pietro di non aver semplicemente tenuto la rotta sul tema del «grande fratello» giudiziario, ma di aver addirittura alzato il tiro sull’argomento, criticando il ddl proposto dal governo (bollato come «piduista») e annunciando di essere pronto a lanciare un referendum per abrogare l’eventuale legge per limitare l’uso delle intercettazioni. Che sono «uno strumento utile e necessario», spiega Tonino, augurando persino «buon lavoro» ai magistrati che indagano su quelle telefonate tra Cristiano e Mautone: «Quando non si ha nulla da temere - la sua sintesi - non si ha paura delle indagini».
Eppure Tonino, a dar retta agli investigatori della Dia, qualcosa da temere ce l’aveva, visto che c’è il sospetto fondato che l’ex pm sapesse in tempo reale che il figlio era intercettato. Così come qualcosa da temere forse il leader Idv l’aveva quando ancora indossava la toga e indagava sul banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia. Quello «sb(i)ancato». Il faccendiere aveva nel 1993 acquistato schede telefoniche svizzere per evitare le intercettazioni. Alcune di queste, appurò il Gico della guardia di finanza, Pacini Battaglia le aveva anche regalate ad amici e conoscenti. E secondo il giudice Ferdinando Imposimato, uno dei destinatari era proprio l’ex pubblico ministero. «L’utenza gsm n. 0041/892009854 è stata certamente usata da Di Pietro», ricorda Imposimato nel suo libro Corruzione ad alta velocità: «Queste schede avevano all’epoca una particolarità, rendevano praticamente inintercettabili i telefoni che le usavano», continua Imposimato, e ovviamente chi usava quei telefoni di fatto non aveva nulla da temere. «Queste schede erano tutte intestate a Henri Lang, autista di Pacini Battaglia. Questo è agli atti della magistratura bresciana. E il fatto che il gip De Martino non l’abbia considerato reato non vuol dire che non sia vero».
Di Pietro, all’uscita del libro di Imposimato, tanto per non smentirsi, annunciò querela. «La sto ancora aspettando. Né io né la mia casa editrice Koiné abbiamo mai ricevuto querele, citazioni o richieste di rettifica da Di Pietro o da suoi rappresentanti», rivela Imposimato al Giornale.
Tornando alle schede svizzere di Pacini Battaglia - che anticipavano un sistema poi perfezionato dal dg juventino Luciano Moggi, come emerse nell’inchiesta della procura di Napoli su Calciopoli - è vero che a Brescia il gip non diede seguito alle contestazioni dei pm, che ritenevano invece come l’uso e il possesso di quella scheda telefonica dimostrassero il legame e i rapporti diretti tra Di Pietro e il banchiere italo-svizzero che Tonino indagava. Ma è vero anche che l’utilizzo di altre sim svizzere di Pacini Battaglia è stato giudicato penalmente rilevante da altri magistrati. Quando il gip di Milano Alessandro Rossato chiese al Parlamento l’arresto di Cesare Previti, tra le motivazioni della pericolosità dell’ex deputato mise nero su bianco che «l’onorevole Cesare Previti ha utilizzato una o due schede telefoniche gsm svizzere, fornitegli da Pacini Battaglia (int. 30/7/1997) “per sentirsi più tranquillo sulle telefonate che faceva”». Stesse schede, valutazioni difformi.
Infine. Se è vero, come Di Pietro afferma il 24 dicembre scorso, che «le intercettazioni stanno all’attività giudiziaria come il bisturi alla sala operatoria», l’ex pm dovrebbe ricordarsi che anche lui ha avuto paura - per restare alla stessa metafora - di finire sotto i ferri. Tanto che quando era sotto indagine a Brescia, Di Pietro mette a verbale una richiesta che alla luce delle sue attuali convinzioni è un po’ stonata. Lo fa in un interrogatorio del 7 luglio 1995.
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