Economia

Anche l’Alto Adige ha la sua Ilva: il caso Solland Silicon

Anni di vicende giudiziarie, aste e dubbi sulle procedure seguite. Ma sotto inchiesta per ora ci sono solo gli operai che si rifiutano di spegnere gli impianti

Anche l’Alto Adige ha la sua Ilva: il caso Solland Silicon

Il caso Solland Silicon vi stupirà. Chi l’ha detto che di Ilva ce n’è una sola? O meglio. Facciamola breve. Chi dice che in Italia esiste solo un caso di mala gestione di un impianto? Per l’industria tricolore, nonostante decine di eccellenze mondiali presenti sul nostro territorio, non deve essere un periodo felice. Gli occhi sono tutti puntati sul caso Ilva e sulle 14mila famiglie appese ai capricci di chi ci governa e di un gruppo estero irresponsabile.

Ma basta guardare la cartina geografica e salire di un migliaio di chilometri per scoprire che l’industria italiana, davvero, è a rischio estinzione. Siamo in Alto Adige: modello di autonomia ed efficienza. In questo luogo incantato, però, c’è un problema legato alla convivenza fra altoatesini di lingua tedesca e italiani che negli ultimi mesi è stata resa sempre più difficile da una serie di provocazioni. La piccola Ilva di Bolzano si chiama Solland Silicon, azienda di Sinigo a Merano, ritenuta troppo italiana (per maestranze, storia e dirigenza) e troppo eccellente nel campo della produzione di silicio policristallino per l’elettronica, al punto da danneggiare l’immagine della sorella tedesca Wacker. Nel mondo, tanto per intenderci, le aziende sul mercato che producono silicio policristallino iperpuro per l’elettronica sono una decina. Una di queste si trova sul suolo italico. Eppure, governo provinciale e amministrazione comunale (con sindaco dei Verdi) non hanno esitato un attimo prima di firmare l’ordinanza di dismissione.

Il grido di aiuto arriva da Fratelli d’Italia. L’azienda è stata oggetto di un complesso procedimento fallimentare iniziato con la crisi del silicio per pannelli solari. Crisi poi riassorbita, ma che intanto aveva minato la solidità del ramo d’azienda scorporato. A pesare, gli oneri di bonifica dell’area industriale sempre imposti ai potenziali acquirenti, in quanto l’area è storicamente contaminata sin dagli anni trenta del secolo scorso. A far partire il vortice verso l’abisso il crack della casa madre americana Sun Edison, da cui era nata la Solland Silicon. Ma le operazioni di acquisizione successive avevano l’odore dell’operazione di dismissione pilotata per fallimento proprio per evitare gli oneri delle bonifiche.

Anche le prime gare indette dalla curatela fallimentare erano gravate da Aia (autorizzazioni integrate ambientali) che imponevano oneri pazzeschi per i possibili acquirenti. “Tutto contro i principi europei (direttiva 2004/35/CE) che invece rivendicherebbero il principio del chi inquina paga”, denunciano ora gli operai. E fa loro eco il coordinatore regionale di Fratelli d’Italia, Alessandro Urzì, che ha presentato in Consiglio provinciale, a Bolzano, la richiesta di istituzione di una Commissione d’inchiesta.

Il clima politico sfavorevole creato verso questo patrimonio di tecnologia e competenze industriali ha portato alla decisione della provincia di imporre lo svuotamento degli impianti e alla chiusura della fabbrica. E l’asta l’ha fatta diventare un boccone appetitoso per un’azienda locale che ha pagato solo un milione e 750mila euro per 68mila metri quadrati di asset tecnologici, capannoni e terreno.

“Questo in presenza di un’offerta presentata di oltre cinque milioni, uno e mezzo giù depositati da Singapore”, osserva Urzì che ora chiede che sia la commissione d’inchiesta a valutare se questa offerta avrebbe potuto ristorare meglio i creditori della azienda fallita. Il colpo di scena, o di grazia, arriva ai titoli di coda. I lavoratori, dopo avere ricevuto il mandato di staccare la spina, hanno deciso di serrare le braccia e scioperare. Per salvare l’industria italiana. Ma è verso di loro che ora è scattata un’indagine. Una storia che ha del surreale. Dopo questa penosa vicenda che dura da anni, sono solo loro, gli operai, ad essere sotto inchiesta, probabilmente perché si sono rifiutati di completare un suicidio (lavorativo) assistito.

Con buona pace della provincia di Bolzano che, nel silenzio del governo nazionale, continua a fare spallucce quando si tratta di tutelare un patrimonio italiano. Una questione spinosa di cui non si è mai data risonanza nazionale. A Merano c’è una piccola Ilva, cuore pulsante della manifattura italiana. Chiede aiuto.

E magari è il caso di dare una mano.

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