Rodolfo Parietti
Se Donald Trump non deciderà una sospensione all'ultimo minuto, comportandosi come quei governatori che graziano in extremis il condannato, da oggi entreranno in vigore i dazi imposti dagli Usa sull'acciaio e sull'alluminio europei. L'insuccesso della recente missione a Washington del trio Merkel-Macron-May, con l'Italia incapace di ritagliarsi uno strapuntino negoziale e dunque tenuta ancora una volta ai margini, non lascia ben sperare. Bruxelles è già pronta alla battaglia: «Ci aspettiamo che il Presidente Trump - ha twittato il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani - escluda l'Ue dai dazi una volta per tutte. Qualsiasi altra decisione danneggerebbe entrambe le parti, non lasciandoci altra scelta se non quella di adottare contromisure di riequilibrio». La lista dei prodotti made in Usa bersaglio della rappresaglia comunitaria è stata decisa da tempo: dal mais al riso, dal bourbon al succo di arancia, dalle moto Harley Davidson ai jeans Levi's fino al burro di arachidi e molto altro.
Il rischio, però, è che nelle prossime settimane si inneschi una reazione a catena fatta di continue forme di ritorsione. È lo scenario che più deve temere l'Italia, non particolarmente esposta invece, secondo una recente analisi di Confindustria, se i dazi Usa continueranno a essere circoscritti ad acciaio e alluminio, settori in cui le vendite nazionali negli States sono stati pari nel 2017 a 760 milioni di euro, appena il 3,8% di quelle realizzate all'estero. Ben più pesanti sarebbero invece i danni derivanti da un'escalation da guerra commerciale vera e propria. L'ultimo Def messo a punto dal governo ipotizza una perdita di Pil, rispetto allo scenario di base, dello 0,3% nel 2018 e dello 0,7% nel 2019. Decimali che potrebbero pesare in un contesto macro-economico ormai in rallentamento nell'intera eurozona e in un biennio in cui gli aiuti della Bce dovrebbero esaurirsi. Gli economisti hanno stimato che un conflitto commerciale a livello globale (i dazi di Trump sull'acciaio sono contro Ue, Cina, Giappone) le tariffe doganali finirebbero per aumentare, mediamente, al 32%. La crescita mondiale verrebbe decurtata di 1-2 punti percentuali. Nell'immediato, a subirne di più le conseguenze sarebbe l'Europa, che esporta l'equivalente del 3,5% del suo Pil, il doppio dell'1,7% della Cina.
A mettere nero su bianco le possibili conseguenze per il made in Italy è stata invece, proprio ieri, la Coldiretti: a rischio vi sarebbero 40,5 miliardi di euro di esportazioni verso gli Stati Uniti, che nel 2017 hanno raggiunto il record storico grazie ad un aumento del 9,8% rispetto all'anno precedente, con un primato assoluto per quanto riguarda l'export di cibo e bevande (4 miliardi, +6%). Le tensioni nei rapporti, rileva Coldiretti, «hanno già avuto i primi effetti nel primo trimestre del 2018 in cui si registra un sostanziale stallo (+0,3%) delle esportazioni italiane in Usa rispetto allo scorso anno».
Oltre ai rischi che corre la filiera agro-alimentare e il made in Italy in generale, a preoccupare sono soprattutto gli effetti di secondo livello. È verosimile, per esempio, che le imprese siderurgiche tedesche colpite dai dazi decidano di tagliare gli acquisti di beni intermedi fatti finora proprio dalle aziende italiane.
Tutte queste ipotesi sono comunque subordinate al modo in cui si svilupperà il braccio di ferro tra Washington e Pechino, a un passo dal diventare qualcosa di più serio rispetto a forme più o meno blande di protezionismo.
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