Finalmente è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 7 maggio il decreto attuativo sui «Pir», i Piani individuali di risparmio a lungo termine. E già arriva la bocciatura di Banca d'Italia. Che lancia l'allarme: le nuove regole «aumentano il profilo di rischio dei piani di risparmio e possono rendere più difficile il rispetto dei requisiti prudenziali di diversificazione e di liquidità previsti per i fondi Pir esistenti, tutti costituiti nella forma di fondi aperti».
Critico anche l'ad di Mediolanum, Massimo Doris, che ha il 21% di quota di mercato sui Pir: «I mercati avevano attese diverse in merito al decreto attuativo. La normativa non risolve i problemi, anzi», sottolinea il banchiere alla vigilia di «Io», l'evento che riunisce a Torino i promotori di tutta Italia di Mediolanum e dedicato quest'anno al tema della sostenibilità. Il fatto - aggiunge Lucio De Gasperis, ad di Mediolanum gestione fondi - è che la norma non è concretamente applicabile, perché è un prodotto che nasce per il retail e che quindi dovrebbe essere molto liquido e che mal si concilia con gli strumenti illiquidi previsti dalla normativa. In questo scenario resta quindi difficile emettere nuovi Pir.
Vediamo che cosa prevede nel dettaglio il decreto sui Pir: non è più prevista l'ipotesi della gradualità per raggiungere la quota utile a accedere all'agevolazione fiscale. Il 70% del valore complessivo dei Pir deve essere investito per un 5% in strumenti finanziari emessi da pmi ammissibili e scambiati su sistemi multilaterali di negoziazione e per almeno un 5% in venture capital. Le pmi non devono inoltre essere quotate su un mercato regolamentato nè aver ricevuto risorse finanziarie per oltre 15 milioni. Senza contare che si considerano ora ammissibili gli investimenti in «equity» e «quasi equity», ovvero un tipo di finanziamento che si colloca tra equity e debito e ha un rischio più elevato del debito di primo rango (senior) e un rischio inferiore rispetto al capitale primario (common equity), il cui rendimento per colui che lo detiene si basa principalmente sui profitti o sulle perdite dell'impresa destinataria e non è garantito in caso di cattivo andamento dell'impresa.
Il Mise si riserva di monitorare gli effetti dei correttivi sulla raccolta e il numero delle negoziazioni e nel caso di valutare ulteriori opportunità di intervento in futuro. Ma i dubbi di Bankitalia restano: «Aumenta il rischio che i fondi registrino perdite derivanti da vendite di attività in mercati poco liquidi a fronte di episodi di forte volatilità dei corsi che inducano i sottoscrittori a liquidare l'investimento prima di conseguire il beneficio fiscale. Tali perdite - sottolineano da Palazzo Koch - potrebbero riflettersi negativamente sui risultati dei Pir e sulla reputazione degli intermediari che li promuovono. Proprio al fine di limitare questi rischi, gli investimenti dei fondi aperti italiani in titoli di Pmi italiane e in fondi di venture capital sono attualmente pressochè nulli».
A supporto dei dubbi, Banca d'Italia allega la fotografia scattata alla fine del 2018 all'Aim) di Borsa dove erano quotati poco più di 60 titoli emessi da Pmi italiane non finanziarie, con una capitalizzazione complessiva di circa 3 miliardi e un flottante medio del 30%. Lo scorso anno quasi la metà di questi titoli non ha registrato scambi per almeno un quarto dei giorni di contrattazione. Lo scenario non cambia guardando la fotografia del venture capital.
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