Le possibilità di un accordo commerciale tra Usa e Cina sono ora le stesse che ha un gatto di sopravvivere in tangenziale. Praticamente nessuna. E i mercati, tutti giù per terra come tanti birilli anche ieri, lo sanno. La conferma è arrivata dall'uno-due ravvicinato con cui Pechino ha controbattuto alla minaccia di Washington di introdurre, a partire da settembre, nuovi dazi sulle merci del Dragone. Prima è arrivata la decisione di sospendere l'import di prodotti agricoli americani, poi si è scelto di non intervenire per sostenere lo yuan, crollato ai minimi dal 2008 nei confronti del dollaro a causa dello sfondamento di una soglia psicologica importante come quota 7 reminmbi.
Spostare la guerra sul versante valutario può essere un azzardo, poiché una mossa simile oltre ad avere implicazioni sicure sotto il profilo economico (merci cinesi più competitive, export a stelle e strisce danneggiato), ne ha anche, e forse perfino più gravi, sotto il profilo dei rapporti diplomatici con i rivali che stanno a Washington. Donald Trump, infatti, è andato subito su tutte le furie, esternando la propria rabbia in un tweet al vetriolo: «La Cina ha abbassato il prezzo della sua valuta a un minimo quasi storico».
Si chiama «manipolazione della valuta». Stai ascoltando Federal Reserve? Questa è una grave violazione che col tempo indebolirà notevolmente la Cina». Parole di fuoco capaci di scuotere le Borse, già reduci da una settimana negativa, nonostante il governatore della People's Bank of China, Yi Gang, abbia negato l'intenzione di combattere a colpi di svalutazioni competitive. A schiacciare verso il basso i listini (Milano ha perso l'1,3% dopo un -2% durante la seduta, e peggio hanno fatto l'Euro Stoxx 600, giù del 2,3%, e soprattutto Wall Street, con un crollo superiore al 3% a mezz'ora dalla chiusura) sono i timori che le reciproche misure di ritorsione fra Usa e Cina possano far inceppare gravemente l'economia mondiale. Morgan Stanley, che considera «alto» il rischio di un'ulteriore escalation del braccio di ferro fra le due super potenze mondiali, non esclude una recessione globale entro 90 giorni se non saranno rientrate le attuali tensioni.
Non è certo la prima volta che The Donald accusa un Paese di mantenere artificialmente bassa la propria moneta o di orchestrarne il ribasso. La Germania ne sa qualcosa, ma con la Cina, vista la posta in gioco, l'accusa è ancora più velenosa. Non solo: il cinguettio del tycoon punta ad attribuire alla Fed, ancora riluttante ad assecondare il disegno presidenziale di azzeramento dei tassi, la responsabilità di quanto sta succedendo. Con un costo del denaro più basso, il dollaro dovrebbe infatti essere più debole. Almeno sulla carta: non sempre i fondamentali macro funzionano nel mondo attuale. Ma chiamando direttamente in causa il capo della banca centrale Usa, il nemico Jerome Powell, l'inquilino della Casa Bianca sembra avvalorare la tesi che attribuisce la decisione di imporre nuovi dazi alla Cina alla volontà di provocarne una reazione tale da mettere la Fed con le spalle al muro. Il mercato, malgrado le resistenze espresse dal successore di Janet Yellen, è d'altra parte ancora convinto che l'istituto di Washington finirà per capitolare.
Secondo un sondaggio del Wall Street Jornal, il 75% degli investitori si aspetta almeno altri due tagli dei tassi fra settembre e la fine dell'anno.Ma, nel frattempo, si fa sempre più fitta sui mercati la pioggia delle vendite.
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