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Con il nuovo piano industriale, Marco Tronchetti Provera si prepara a chiudere il cerchio della sua ventennale esperienza alla guida della Pirelli e, più recente, quello del suo ritorno a tempo pieno alla Bicocca dal 2009, dopo la controversa esperienza in Telecom. A fine 2017 il manager sarà alla soglia dei 70 anni e avrà nel frattempo pensato alla sua successione al vertice dell'azienda. Ma quel che più conta è che a questo passaggio la Pirelli arriva senza più avere il controllo blindato dal patto di sindacato: il 74% delle azioni è sul mercato; mentre una parte della quota stabile è nelle mani del private equity. In questo senso questo è il piano del futuro. Alla base, però, c'è un gruppo che, al di là delle forti simpatie e antipatie che Tronchetti attira a sé da anni, ha saputo trovare una sua strada nel mondo delle multinazionali. E non era scontato: il posizionamento nel segmento «premium» (pneumatici di alta gamma) e la globalizzazione (Brasile, Messico, Cina, Russia anche se con problemi) hanno permesso a Pirelli di non essere oggi come Fiat. Vale a dire - fatte le dovute proporzioni industriali - stare sul mercato globale senza per questo lasciare né l'Italia, né l'Europa. Forse si poteva fare meglio dal lato gestionale, o forse peggio, con qualche decina di milione di «ebit» in più o in meno. Ma la strategia di fondo è buona e il mercato lo riconosce, con il titolo ai massimi. Ma allo stesso modo il mercato comincia anche a pensare ad altro. E cioé che con questo assetto azionario e a questi multipli (10-11 volte gli utili 2015, 5 volte l'ebitda), il gruppo va diritto verso l'ingresso di un nuovo grande socio di settore che, attraverso un'aggregazione, sia in grado di generare valore già oggi stimato nel 30% in più di quello attuale.
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